Sul Recovery Fund c’è un progetto diviso in cinque tappe fondamentali di cui il ministro Speranza parla da mesi. Sanità Informazione ha confrontato le richieste dei protagonisti della sanità e verificato corrispondenze e discrepanze
Investire nella sanità. È il primo e unico mantra che il ministro della Salute Roberto Speranza ripete da mesi a chi lo interroga sui prossimi obbiettivi del governo. Quello che il coronavirus ha imposto come priorità e che associazioni di categoria, società scientifiche e pazienti chiedono da anni. Speranza ha assicurato che una riforma della salute sarà ora al centro delle destinazioni del Recovery Fund, il fondo per la ripresa garantito dall’Europa: 82 miliardi a fondo perduto e 127 miliardi in prestito anche per il progetto ambizioso del Ministro, che entro gennaio dovrà essere pronto, delineato in cinque punti.
Qualche mese fa, Sanità Informazione aveva chiesto ai protagonisti della sanità quali fossero gli aspetti da migliorare e su cui puntare per pensare alla “salute del domani” in Italia. Le richieste degli addetti ai lavori e i progetti del governo viaggiano, dunque, di pari passo?
Una riforma della sanità territoriale, che risente eccessivamente delle differenze tra regioni, occupa il primo punto del piano decennale. «La parola chiave sia “prossimità”», è stato l’invito di Speranza, che ha in mente un progetto di sanità circolare in cui il paziente torni al centro. Patologie gravi negli ospedali e attività di assistenza e prevenzione nelle strutture territoriali, con un potenziamento delle seconde ritardato da troppo tempo. La revisione di quel Dm 70 che, con l’obiettivo di rafforzare gli ospedali in rete, non ha fornito un’alternativa reale al paziente.
Ora l’evoluzione dovrà riguardare anche Hub, Hospice, consultori, Rsa e centri di riabilitazione. Mettendo davvero in moto tutta l’offerta del Sistema sanitario nazionale e creando un «nesso più forte tra politiche sociali e sanitarie».
Quella che Filippo Anelli, presidente FNOMCeO, definisce «una visione illuminata della sanità». Un percorso nuovo che potrebbe permettere a medici di medicina generale e pediatri di libera scelta di svolgere davvero il ruolo di “medici sentinella”. Fare quindi da prima difesa contro il ritorno del virus, grazie a una collaborazione finalmente attiva con gli ospedali, che vengano anche decongestionati.
Nella pratica, secondo i rappresentanti delle professioni, nulla può prescindere da nuove assunzioni. È la richiesta di Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi, che invita a investire su un aumento del 15% tra gli infermieri, con retribuzioni riviste. Ma è anche quella di Alessandro Beux, che da presidente Fno Tsrm-Pstrp vuole l’assunzione immediata di tutte le professioni sanitarie direttamente coinvolte nell’emergenza.
«Abbiamo bisogno di 10mila medici e 20mila infermieri in più»: lo conferma anche Carlo Palermo, segretario di Anaao-Assomed. Cui aggiunge contratti di formazione per 17mila nuove leve nel 2021: «Servono in particolare in alcune branche come Anestesiologia, Emergenza/Urgenza, Malattie Infettive, Pneumologia, Medicina Interna, Pediatria, servono ora e non tra 11 anni». Indicazione che trova d’accordo anche i diretti interessati, e da Federspecializzandi si unisce la richiesta di una formazione specifica per non trovarsi più impreparati di fronte a un’emergenza come quella di Covid-19. La prevenzione può e deve, dunque, essere il metodo da seguire se il governo saprà ascoltare le richieste che vengono da chi lavora ogni giorno sul campo.
Il secondo punto del Recovery Plan si focalizza sulla “conoscenza della salute”. Una formula che il ministro ha utilizzato per parlare della necessità di investire nella ricerca. «I nostri istituti di ricerca sono la spina dorsale del Paese», ha detto per poi ricordare quanto sarà utile in futuro attirare sull’Italia gli investimenti delle aziende farmaceutiche. In questi mesi il lavoro dell’INMI Lazzaro Spallanzani ne è stato un esempio, con lo sviluppo di un vaccino tutto italiano contro Covid-19, che ha attirato l’attenzione oltre i confini. L’invito delle società scientifiche resta quello di motivare ricercatori ed esperti con riconoscimenti che permettano di proseguire l’attività con i mezzi e le tecnologie necessarie.
Con la ricerca viaggia di pari passo l’innovazione digitale, intesa come un cambiamento definitivo nel metodo di fruizione dei servizi sanitari in Italia. Con il lockdown e le sue “costrizioni”, la telemedicina e i servizi a distanza hanno dimostrato la propria efficacia anche ai più scettici. Mantenendo fermo comunque il principio per cui la visita non è sostituibile, i consulti “da remoto” hanno permesso di gestire situazioni di più semplice controllo e monitoraggio che avrebbero contribuito al sovraffollamento di distretti e ospedali. Implementare questa nuova tecnica è al centro del punto “innovazione digitale”.
Sulla sua utilità hanno concordato tutti gli organi di rappresentanza, a cui si sono uniti i pazienti stessi. La Simg (Società italiana di medicina generale) sottolinea come questo passaggio possa risultare anche un trampolino per liberarsi di quella burocrazia che da troppo tempo affligge la sanità pubblica. Un primo passaggio è stata la dematerializzazione delle ricette, ma si può proseguire rinnovando profondamente l’approccio al digitale. Quello stesso che la Sigot, in rappresentanza dei geriatri, invoca a gran voce anche per la cura degli anziani da casa.
«La casa deve essere il primo luogo di cura delle persone – concorda Speranza –. Già nel Dl Rilancio c’è stato un investimento significativo sulle cure domiciliari: passeremo dal 4% al 6,7% di assistenza domiciliare per gli over 65», un proposito essenziale per una popolazione “anziana” come quella che l’Italia registra.
«Con le stesse modalità e gli stessi strumenti e facendo leva sulla loro capillarità – aggiunge Marco Cossolo, presidente di Federfarma – le farmacie potranno, inoltre, essere coinvolte nelle attività di effettuazione di test e screening di prevenzione e di supporto ai pazienti colpiti da Covid-19 trattati in regime di assistenza domiciliare», con la consegna di medicinali e altri presidi e verifica dell’andamento delle terapie, a supporto dei medici.
Fino a qui il mondo sanitario e i fautori del piano Recovery Fund sembrano trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda. L’innovazione del Ssn passa da metodi concordi e lascia una buona speranza sulla sua realizzazione. C’è però una richiesta che si solleva da molte direzioni diverse e che per ora non trova traccia nei propositi governativi: la revisione del Titolo V.
Speranza ha più volte sottolineato la necessità di «ridurre le diseguaglianze tra territori», ma senza mai specificare come effettivamente si uniformerà il sistema attuale a più velocità. La richiesta, che parte specialmente dalla politica (dalla sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa fino a Paola Boldrini, capogruppo della Commissione Sanità) è quella di rivedere le autonomie regionali in favore di una maggiore centralizzazione statale del sistema sanitario.
Non un riaccentramento vero e proprio, ma il ritrovamento di uno standard sul livello delle cure. «Per i malati rari – ricorda Ilaria Ciancaleoni Bartali di Omar – l’illogicità di avere 20 diversi sistemi è evidente. Non è possibile che alcuni possano fare le terapie a domicilio, magari in orario extra lavorativo, ed altri debbano necessariamente perdere giornate di lavoro per fare le stesse identiche cose in ospedale». Ogni regione deve avere la possibilità di curare allo stesso livello delle altre e per procedere a questo livellamento il Recovery Fund fornirebbe le risorse necessarie. Speranza, per ora, non vi ha alluso direttamente.
Intanto il piano ha subito una botta d’arresto quando è giunta la notizia della positività della deputata Pd Beatrice Lorenzin. Essendo membro della Commissione Bilancio della Camera, in agenda per discutere le priorità del Recovery Fund, l’appuntamento è stato sconvocato e per ora messo in pausa.
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