Il Presidente della Commissione d’Albo degli Educatori professionali di Roma e membro del Consiglio direttivo Anep spiega: «Gli iscritti chiedono più assunzioni nel settore pubblico». Poi chiede di «creare in ogni quartiere organizzazioni sociosanitarie integrate»
«L’assistenza domiciliare è un caposaldo da cui ripartire. Servono équipe di prossimità sociosanitarie integrate tra loro. I CAD – Centro assistenza domiciliare o i PUA – Punto Unico di Accesso, che dovrebbero svolgere questo lavoro, sono al momento in realtà delle scatole vuote. Il futuro è l’operatore sanitario che viene a casa». Ha le idee chiare Nicola Titta, Presidente della Commissione d’Albo degli Educatori Professionali ed ex presidente ed ora membro del Consiglio direttivo di Anep – Associazione nazionale educatori professionali.
Come altre professioni sanitarie che richiedono un contatto stretto con il paziente, anche gli educatori professionali hanno risentito molto dell’emergenza Covid. Una situazione di difficoltà che ha costretto i professionisti a reinventare gli interventi terapeutici adattandoli alle misure emergenziali.
«Soprattutto nell’ambito delle disabilità e sul territorio il Covid ha ridotto notevolmente la possibilità di poter lavorare al meglio – spiega Titta a Sanità Informazione -. Se il contenuto centrale della nostra azione è la relazione con il destinatario dei servizi, sicuramente il Covid ci ha tolto questa relazione. La presenza attiva all’interno di un servizio è stata necessariamente rivista da parte delle regioni ed è stata diversificata con interventi a distanza. Il lavoro a distanza, per una figura come la nostra, preclude molte possibilità».
Secondo Titta è pertanto fondamentale rilanciare il lavoro sul territorio e in particolare l’assistenza domiciliare: una esigenza che gli educatori professionali condividono con altre professioni afferenti alla Federazione TSRM e PSTRP.
«Sulla riabilitazione abbiamo la problematica dell’ex articolo 26 della legge 833 del 1978 (in base al quale “Le prestazioni sanitarie dirette al recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, dipendenti da qualunque causa, sono erogate dalle unità sanitarie locali attraverso i propri servizi”, ndr) – argomenta Titta -. A Roma, ad esempio, abbiamo strutture enormi dove c’è anche la compresenza di 300-400 persone con problematiche di salute molto diversificate tra loro tutte concentrate in uno stesso spazio. Questi luoghi di cura sono diversi e distanti da casa, a volte anche 40 chilometri. Ciò non ha senso dal punto di vista della cura e dell’appropriatezza: sul territorio bisognerebbe creare in ogni quartiere organizzazioni sociosanitarie integrate. La prossimità potrebbe aiutarci. Non ci sono spazi sociali e quindi quegli spazi potrebbero essere utilizzati in maniera coordinata utilizzando le risorse dei territori».
Tra le richieste che arrivano dalla base degli iscritti, almeno a Roma, la più incalzante è quella che si aprano degli spazi di lavoro nell’ambito pubblico: «Disabilità, salute mentale e dipendenze: in questi ambiti la Regione Lazio è in ritardo» spiega Titta. Ma c’è anche un altro problema, che tocca più direttamente il lavoro quotidiano: l’assenza di linee guida specifiche in alcuni ambiti, come ad esempio la disabilità nella minore età, il trattamento delle persone uscite dal carcere e l’immigrazione: «Abbiamo tanti progetti ma non abbiamo sistematizzato quelle conoscenze che sul campo ci sono ma che avrebbero bisogno di avere un corpo scientifico importante. Come Anep ci stiamo lavorando, ci siamo trasformati in associazione tecnico scientifica e abbiamo fatto richiesta al ministero della Salute per entrare nell’elenco delle società scientifiche».
In molti avevano sperato che la creazione dell’Ordine TSRM e PSTRP sistemasse la giungla formativa che caratterizza da tempo il mondo degli educatori professionali. Pietra miliare di questo percorso è stato il DM 520 del 1998 che definisce la figura dell’educatore professionale e ne specifica la formazione. Ma, come si dice, spesso il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. È accaduto dunque che il Decreto ministeriale stabilisse che la formazione doveva essere svolta tra più facoltà e anche tra più università. Ad oggi esistono dunque due classi di laurea: la SNT2 presso Medicina, abilitante all’esercizio della professione sociosanitaria, e la L19 presso Scienze dell’Educazione che però è orientata all’ottenimento della qualifica di educatore professionale socio-pedagogico.
«Ma dal 2008 è stato stabilito che solo la laurea SNT2 fosse abilitante alla professione e l’altra no. Scienze dell’Educazione non è abilitante all’esercizio della professione tanto che questi laureati si possono iscrivere agli elenchi speciali ma non all’Albo, anche se molti di loro lavorano nei servizi Asl e hanno persino vinto concorsi regionali», spiega Titta. Un caos, dunque, a cui hanno contribuito anche le regioni che hanno ammesso ai concorsi persone che non avevano il giusto titolo di laurea. A complicare le cose il fatto che prima del 1998 non fosse necessaria nemmeno la laurea. Oggi la Commissione d’Albo nazionale partecipa alle conferenze dei servizi che si occupano dell’aspetto dei titoli equivalenti.
«Infine – sottolinea Titta – negli ultimi anni si sono registrati in Parlamento vari tentativi di far entrare il socio-pedagogico nel socio-sanitario a tutti i costi e a questo noi ci siamo sempre opposti».
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