Abbinante (Aidi): «Secondo l’Istituto Superiore di Sanità il rischio aumenta quando il contatto è ravvicinato (< 1 metro) e prolungato (> 15 minuti), ripetuto o continuativo. Da sempre adottiamo comportamenti per difenderci da patologie come le epatiti, l’Hiv, la tubercolosi, la mononucleosi e le stesse forme influenzali»
WebMeeting, riorganizzazione delle misure di sicurezza negli studi professionali e progettazione di corsi di formazione e comunicazione per la gestione del rapporto operatore-paziente ai tempi del Covid-19. Così l’Aidi, l’Associazione igienisti dentali italiani, ha sostenuto i suoi professionisti durante la riapertura degli studi professionali.
Per gli operatori dell’igiene orale, infatti, la fase 2 è cominciata da oltre due settimane: «La ripartenza è stata molto prudente e organizzata – racconta Antonella Abbinante, presidente Aidi -. In tutta Italia gli igienisti dentali hanno riaperto i propri studi professionali solo se certi di lavorare in sicurezza. Una sicurezza vincolata principalmente alla reperibilità degli adeguati dispositivi di protezione individuale e che, d’altronde, da sempre mettiamo in atto in ambito odontoiatrico, sia per noi stessi in veste di operatori sanitari, che per i nostri pazienti, considerati a priori portatori di patologie e, quindi, in grado di contagiare».
Una ripartenza difficile ma che ha offerto anche dei momenti di soddisfazione. «La più grande gratificazione che stiamo ricevendo quotidianamente arriva proprio dai nostri pazienti: ci confidano di aver provato un grande timore prima di tornare in studio, paura che è immediatamente scomparsa all’arrivo, essendosi sentiti immediatamente al sicuro per tutte le procedure adottate, sia nella fase di triage che di trattamento».
Gli igienisti dentali, come gli odontoiatri, nello svolgimento delle loro attività assumono posizioni operative che prevedono distanze ravvicinate, a 30-40 cm dal paziente, e la produzione di aerosol durante le procedure, ponendoli così in una condizione di elevato pericolo di contagio. « L’Istituto Superiore di Sanità, infatti, afferma che il rischio aumenta quando il contatto è ravvicinato (< 1 metro) e prolungato (> 15 minuti), ripetuto o continuativo. Per questo – sottolinea la presidente Aidi – da sempre rispettiamo i protocolli di sicurezza e adottiamo comportamenti in grado di assicurare la prevenzione delle infezioni crociate per difenderci da patologie come le epatiti, l’Hiv, la tubercolosi, la mononucleosi, le stesse forme influenzali che si diffondono principalmente attraverso la saliva. Ora adottiamo maggiori accorgimenti per la protezione del paziente (dal triage all’accoglienza), per l’igienizzazione delle superfici, oltre all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale più potenziati per la nostra vestizione, come mascherine ffp2 e ffp3, occhiali, visiera, camici idrorepellenti, doppia aspirazione, cercando di limitare il più possibile la produzione di aerosol».
E così, bardati dalla testa ai piedi, diventano praticamente irriconoscibili, tanto «da temere di non riuscire ad instaurare un rapporto con i nuovi pazienti – confessa Abbinante -. Ma il fatto di non poter guardare il nostro volto, per fortuna, non è stato un ostacolo: ci siamo resi conto che forse avevamo più barriere in passato e che la passione per il nostro lavoro può aiutarci a superare ogni difficoltà».
E mentre si è concluso lo Spring WebMeeting, il primo congresso online ai tempi del Covid-19, che ha ospitato relazioni di numerosi esperti, dal virologo per la gestione del rischio infezione da Sars-Cov-2, al neuropsichiatra per affrontare il disagio psicologico tra operatori e pazienti dopo il lockdown, fino all’avvocato che ha discusso delle responsabilità civili e penali ai tempi del Covid-19, l’Aidi è già al lavoro per sviluppare nuovi progetti. «Puntiamo alla formazione non solo per l’adeguata adozione di tutte le procedure di sicurezza, compresa la vestizione e la svestizione – dice la presidente dell’Associazione – ma soprattutto a dei corsi che ci aiutino ad affrontare e superare ansia e paure, sia nostre che dei nostri pazienti. Tutti quei timori che derivano da questo periodo di reclusione forzata tra le mura domestiche che ha indotto tutti – conclude – ad un radicale cambiamento delle abitudini di vita».
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