Pubblicato su ‘Jama Neurology’ uno studio che mostra quanto per l’Alzheimer conti la familiarità. I ricercatori hanno scoperto che le probabilità di sviluppare la forma più comune di demenza cambia in base a quale genitore ne ha sofferto
L’Alzheimer si può ereditare? E se sì, chi rischia di più fra coloro che hanno casi di malattia in famiglia? Un gruppo di scienziati del Mass General Brigham (Usa) ha cercato di rispondere a queste domande, confermando che per l’Alzheimer la familiarità conta e scoprendo che le probabilità di sviluppare la forma più comune di demenza cambia in base a quale genitore ne ha sofferto: il pericolo, in particolare, è maggiore per le persone la cui madre – non importa quando nel corso della vita – ha manifestato sintomi di Alzheimer. Il rischio di ammalarsi è risultato più alto anche se questi sintomi sono presenti in famiglia da parte sia di mamma che di papà, oppure se li ha sviluppati il padre, ma precocemente. Lo studio è pubblicato su ‘Jama Neurology‘.
Gli autori hanno esaminato la storia familiare (parenti con sintomi di Alzheimer, anche senza una vera e propria diagnosi) di 4.400 uomini e donne di età compresa tra 65 e 85 anni, senza problemi cognitivi, coinvolti in un trial clinico per la prevenzione dell’Alzheimer (Anti-Amyloid Treatment in Asymptomatic Alzheimer’s o A4). Tramite imaging hanno valutato i livelli cerebrali di proteina amiloide, biomarcatore della malattia di Alzheimer, osservando appunto che “la storia familiare materna di una persona, rispetto a quella paterna, potrebbe avere un impatto diverso sul rischio di accumulare amiloide nel cervello”. Alcune ricerche lo avevano suggerito già in precedenza, ma su numeri molto più piccoli.
Dal nuovo lavoro sul campione dello studio emerge che, “se i partecipanti avevano una storia familiare” di Alzheimer “da parte di madre, veniva osservato un livello di amiloide più alto”, riferisce il neurologo Hyun-Sik Yang, autore corrispondente dello studio per il quale ha collaborato con altri colleghi del Mass General Brigham e con scienziati della Vanderbilt University e di Stanford. “Non importa a che età la madre ha iniziato a sviluppare sintomi”, precisa la neurologa Mabel Seto, prima autrice: indipendentemente da quando sono cominciati i problemi cognitivi di mamma, questi erano associati a livelli maggiori di amiloide nei figli. L’eredità del padre, al contrario, pesava sulla prole soltanto quando i sintomi erano insorti presto: “Avere solo una storia paterna di disturbi della memoria a esordio tardivo non era associato a livelli di amiloide più elevati”, chiariscono gli autori.
Gli scienziati citano alcuni limiti del lavoro. Per esempio il fatto che i genitori di alcuni partecipanti erano morti giovani, prima di poter eventualmente sviluppare disturbi cognitivi. O che la maggioranza delle persone valutate era bianca non ispanica, quindi i risultati dello studio potrebbero non valere per altre etnie. Inoltre, fattori sociali potrebbero fare la differenza nel riconoscere o meno i sintomi spia di Alzheimer. Nuove ricerche verranno dunque condotte, anche per capire come la storia familiare influenza concretamente il declino cognitivo e l’accumulo cerebrale di proteina amiloide nel tempo, e perché il Dna materno gioca un ruolo nel rischio Alzheimer. Per la neurologa Reisa Sperling, coautrice dell’articolo e ricercatrice principale dello studio A4, i nuovi dati potrebbero tradursi presto in novità nella pratica clinica. “Questo lavoro – afferma – indica che l’ereditarietà materna della malattia di Alzheimer può essere un fattore importante per identificare le persone asintomatiche da coinvolgere negli studi di prevenzione, attuali e futuri”.
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