Secondo il 19° Rapporto del CREA Sanità “al Ssn servono 15 miliardi per non aumentare il distacco dal resto dell’UE, personale carente e sottopagato. Rispetto ai partner EU, il nostro Paese investe meno nella Sanità, aumenta la spesa privata ed è a rischio l’equità del sistema”. Digitalizzazione necessaria per le “nuove cronicità”
L’Italia perde ancora terreno nella spesa sanitaria rispetto ai principali partner UE (quelli ‘originari’ ante 1995) ed è sempre minore anche il vantaggio rispetto ai partner più recenti (post 1995): il livello della spesa italiana è distante dalla media UE del 32 per cento.
Per portare la quota di PIL destinata alla Sanità sui valori attesi in base alle effettive disponibilità del Paese, ricordando che una parte significativa del PIL non è disponibile perché impegnata per gli interessi sul debito pubblico (sono il 4,3% del PIL contro una media dell’1,8% negli altri paesi), servirebbero 15 miliardi, ma questo lascerebbe un rilevante gap fra la spesa sanitaria italiana e quella dei Paesi europei di confronto; ed anche se in tal modo si eviterebbe di peggiorare ulteriormente il gap con i partner UE nel breve periodo, il vantaggio sarebbe solo transitorio, qualora il PIL dovesse continuare a crescere meno che nella media degli altri Paesi UE.
Una situazione critica quindi, che il C.R.E.A. Sanità, Centro di ricerca riconosciuto da Eurostat, Istat e Ministero della Salute, composto da economisti, epidemiologi, ingegneri biomedici, giuristi, statistici, ha illustrato nel suo 19° Rapporto, (curato da Federico Spandonaro, Daniela D’Angela, Barbara Polistena e da ricercatori ed esperti) presentato oggi nella sede del Cnel a Roma.
I focus del Rapporto non si fermano alla spesa, ma analizzano gli aspetti oltre che di quella pubblica anche della privata, il finanziamento, la situazione del personale e del settore sociosanitario, di farmaceutica, tariffe per la specialistica, equità del sistema e molto altro. Analizza poi, a livello di singole Regioni, alcuni indicatori presentati nel rapporto, ma soprattutto fornisce un decalogo di “opportunità” (in calce all’articolo), azioni cioè che è urgente programmare per risollevare le sorti del SSN.
Il “disagio economico” delle famiglie dovuto a consumi sanitari (somma del fenomeno dell’impoverimento dovuto alle spese sanitarie e delle “rinunce” a curarsi per motivi economici), nel 2021 affligge il 6,1% dei nuclei (1,58 milioni di famiglie): il fenomeno è in crescita di +0,9 punti percentuali rispetto al 2020 e di +1,5 rispetto al 2019. L’incidenza è superiore (e in crescita di 0,1%) nel Sud (8,2%, +0,1%); segue il Nord-Ovest con il 5,9% delle famiglie (+2,0%.), il Centro (5,0%, +1%) e il Nord-Est con il 4,0% (+0,2%).
I casi di disagio economico sono più frequenti (18,1%) tra le famiglie del 20% più “povero” della popolazione e meno in quelle più ricche (1,6%).
Definendo “catastrofiche” le spese che al 40% della “Capacity To Pay” delle famiglie (a sua volta pari ai consumi totali della famiglia al netto delle spese di sussistenza), si registra un aumento dei casi, che interessano il 2,8% delle famiglie residenti (731.489 nuclei), dato in aumento di +0,4% rispetto al 2019.
Il Mezzogiorno continua a essere il più colpito: 4,7% delle famiglie, in aumento del +1,0% nell’ultimo anno; segue il Nord-Est con 2,4% (+0,5%), il Nord-Ovest con l’1,9% (+0,1%) e il Centro con l’1,5% (-0,2%).
I casi sono più frequenti nei nuclei meno abbienti (13,5%), mentre si fermano all’1,8% in quelli più abbienti. Le famiglie più esposte al rischio di spese “catastrofiche” sono quelle degli anziani over 75 (soli o in coppia) e le coppie con tre o più figli minorenni: queste ultime, in particolare, a causa delle cure odontoiatriche.
La spesa sanitaria privata nel 2022 ha raggiunto i € 40,1 mld. in crescita dello 0,6% medio annuo nell’ultimo quinquennio. Nell’ultimo anno si registra un incremento in tutte le Regioni, di circa il 5,0 per cento. Nel 2022 Trentino-Alto Adige (21,0%) e Lombardia (19,7%) sono le Regioni con la quota più alta di spesa privata intermediata. La Sicilia quella con la quota minore (1,0%).
Il 75,9% delle famiglie italiane sostiene spese per consumi sanitari: la quota è aumentata dell’1,7% nell’ultimo anno. Tra le famiglie più abbienti, quelle che ricorrono a spese sanitarie private, superano l’80%; tra quelle meno abbienti non si raggiunge il 60%. In particolare, spendono per la salute le coppie anziane over 75 e le famiglie con tre o più figli. Il 72,7% delle famiglie ha speso per acquistare farmaci, il 37,1% per prestazioni specialistiche e/o ricoveri, il 26,2% per prestazioni diagnostiche, il 23,7% per protesi e ausili, il 21,2% per cure odontoiatriche e il 13,4% per attrezzature sanitarie.
La Sanità si comporta come un bene di lusso e quindi sua quota nei consumi aumenta al crescere del reddito disponibile. Sulla base di questa relazione considerando il PIL “netto” (degli interessi), il punto di “neutralità” per la spesa sanitaria si può stimare intorno ai 3.150 euro pro-capite, cioè il +8,2% in più di quella attuale; in termini di incidenza sul PIL, tale livello di spesa risulterebbe pari al 10,0% (contro l’11,5% medio dei Paesi EU originari) e, quindi, assumendo (cosa discutibile) che la spesa sanitaria privata sia una variabile indipendente e rimanga pari ai livelli sul PIL attuali, ovvero che non si riduca al crescere di quella pubblica, la spesa sanitaria pubblica dovrebbe aumentare sino a raggiungere il 7,2% del PIL (nominale).
Nel 2023 la pesa pubblica è stata il 6,7% del PIL e le previsioni la danno in discesa nei prossimi anni.
Tra il 2003 e il 2021 il numero di medici per 1.000 abitanti over 75 è passato da 42,3 a 34,6 (corrispondente a un gap di 54.018 unità) e il numero di infermieri da 61,0 a 52,3 (corrispondente ad un gap di 60.950 unità).
I professionisti escono dal sistema soprattutto per andare all’estero o in pensione mentre le possibilità di ricambio sono condizionate dal numero di posti messi a bando negli Atenei.
Per i medici il Rapporto presenta una survey originale realizzata in collaborazione con la FNOMCeO (la Federazione degli ordini dei medici) da cui emerge che la professione ha una forte carica vocazionale, “appesantita” però dalla percezione di lavorare in un contesto non favorevole e che non riconosce adeguatamente la professionalità: oltre il 40% non è soddisfatto della propria situazione professionale. Pesa lo stress legato alla percezione di lavorare in situazioni caratterizzate da carenza di organico: rilevata un po’ da tutti e, in particolare, da chi opera negli ospedali pubblici. La valutazione è comune anche ai Professionisti che lavorano in strutture convenzionate accreditate; solo nelle strutture ospedaliere e ambulatoriali private non convenzionate la carenza di personale sembra essere percepita come un problema meno pressante. E dalla survey risulta che le aspettative dei professionisti vanno verso una richiesta di aumento della retribuzione posizionata nella fascia 20-40 per cento.
Per gli infermieri il Rapporto segnala la mancanza di attrazione della professione: ai test di ingresso per la laurea in infermieristica hanno preso parte 22.957 candidati per 20.059 posti, con un rapporto domande/posti pari a 1,1. Tra le cause, il salario gioca un ruolo importante: gli stipendi dei medici italiani, a parità di potere d’acquisto, pur essendo inferiori a quelli dei colleghi dei Paesi dell’Europa occidentale, sono comunque pari a 2,9 volte il salario medio italiano, mentre per gli infermieri il salario non si discosta da quello medio nazionale.
Per far fronte alla situazione la FNOPI (Federazione nazionale degli ordini delle professioni sanitarie) pubblica nel Rapporto un contributo in cui sottolinea che si dovranno sviluppare le competenze della professione per una migliore qualità dell’assistenza, con il passaggio da una logica prestazionale alla presa in carico dell’assistito e del più generale “sistema assistenza” con competenze avanzate gestionali e cliniche e il superamento dei tabù ancora associati ai concetti di skill mix e task shifting.
Il Rapporto in questo senso sottolinea anche la carenza dei cosiddetti “assistenti alle cure” (in primis gli OSS) figure che operano sia in contesto residenziale che domiciliare. Si tratta di una figura per ’assistenza alle non auto-sufficienze, tipicamente coordinata dagli infermieri. Anche perché trascorrendo molto tempo al fianco della persona assistita, sono da considerarsi i destinatari principali dei percorsi di alfabetizzazione digitale per incentivare il ricorso a strumenti di cura digitale. Per queste figure l’Italia, a meno di voler assimilare agli OSS l’esercito di badanti (non professionali) che hanno attualmente in carico gli anziani italiani fragili, è mal posizionata in Europa con 86,4 assistenti per 1.000 abitanti over 75, contro 114,6 della Spagna, 175,8 della Francia e 211,1 del Regno Unito.
Nel 2022, a fronte di 14,5 miliardi di indennità di accompagnamento erogate, il 69,0% (10,0 miliardi) è stato impiegato per “acquistare” servizi o da soggetti che svolgono la professione della badante o da strutture dedicate alla cura e al trattamento di soggetti non autosufficienti. Il restante 31,0% (4,5 miliardi) va a costituire una sorta di “compenso” per l’attività svolta dai cosiddetti caregiver informali, che per lo più si identificano con la figura di un familiare. La stima apre una serie di interrogativi sulla efficacia/efficienza dell’istituto delle indennità di accompagnamento: sarebbe infatti auspicabile che venisse condotta una analisi della efficacia e efficienza relativa dell’assistenza informale rispetto a quella “formale” così come è oggi (ovvero in mano a badanti non professionalizzate), e anche confrontata l’efficacia/efficienza delle attuali modalità di protezione, basate sull’erogazione di indennità monetarie, verso l’alternativa di una erogazione di servizi in natura coordinati con gli altri servizi sanitari.
Malgrado la Legge di Bilancio 2021 avesse previsto un progressivo incremento del tetto per gli acquisti diretti di farmaci (all’8,00% nel 2022, all’8,15% nel 2023 e all’8,30% nel 2024, incrementando il tetto complessivo, dal 14,85% del 2021 al 15,5% del 2024), nessuna Regione rispetta il tetto per acquisti diretti: solo Valle d’Aosta e Lombardia si avvicinano al risultato; Sardegna, Umbria e Abruzzo registrano il maggiore sforamento (oltre 65 euro pro-capite). Al contrario, la spesa farmaceutica convenzionata si è attestata al 6,43% del FSN, quindi al di sotto del target previsto del 7 per cento. Ipotizzando per il 2023 lo stesso incremento di spesa registrato nel 2021-2022 (+8,2%), si determinerebbe uno sforamento di circa 3,2 miliardi.
Anche per il prossimo anno, nonostante la Legge di Bilancio 2024 abbia incrementato il tetto degli acquisti diretti all’8,5% (inclusi i gas medicinali), con un incremento del finanziamento di ulteriori 3 miliardi e una (improbabile) costanza della spesa, permarrebbe uno sforamento di 2,5 miliardi, che potrebbe raggiungere anche i 3,6 miliardi se la spesa si incrementasse come nell’ultimo anno.
Le misure di governance prese non sembrano, quindi, siano state sufficienti a riportare lo sforamento (e quindi il conseguente payback a carico delle aziende farmaceutiche) a valori “fisiologici”.
Per i dispositivi medici, nel triennio 2019-2022, al lordo delle spese per quelli dedicati alla pandemia, lo sforamento del tetto è stato di 7,3 miliardi. La determinazione ufficiale del payback, e quindi della quota di ripiano a carico delle aziende fornitrici, verranno determinati al netto della spesa per il Covid-19.
C.R.E.A. Sanità sottolinea che, con le carenze degli attuali flussi informativi, che riescono a rilevare meno del 80% delle reale spesa per dispositivi e non considerano la spesa per quelli utilizzati nelle strutture accreditate, le stime dello sforamento del tetto prese a base del calcolo del payback presentano limiti oggettivi e generano distorsioni sovrastimando le performance delle Regioni che di più ricorrono all’attività delle strutture private accreditate: risulta quindi urgente il completamento del processo di messa a regime dei flussi di monitoraggio del settore.
Per effettuare una valutazione, per quanto indiretta, della congruità delle nuove tariffe, C.R.E.A. Sanità ha elaborato confronti con le tariffe adottate in altri Paesi, per alcune prestazioni “comuni”.
Ad esempio, per l’elettrocardiogramma l’Italia ha una tariffa di 11,6 euro, inferiore del 22,9% rispetto alla Francia (14,3 euro), del 29,3% rispetto alla Spagna (15 euro), del 96,1% se si considera la Germania (22,8 euro) e di oltre il 140,0% rispetto al Regno Unito (32,1 euro). Al contrario, in Italia, la tomografia computerizzata dell’addome completo senza contrasto è associata una tariffa di 158 euro, mentre in Germania la medesima prestazione è erogata ad una tariffa di 83,2 euro (-19,7%), mentre nel Regno Unito valorizzata con una tariffa pari a € 76,0. Significativa rimane la differenza di valore delle tariffe per quanto concerne le visite specialistiche. In Italia, una prima visita ha una tariffa di 22,0 euro indipendentemente dalla branca di afferenza dello specialista, in Spagna la tariffa è di 115,0 euro, oltre 5 volte la tariffa italiana. Nel Regno Unito il valore della visita dipende dalla tipologia di specialista e va da 136 euro a 382.
Per la visita di controllo, in Italia la tariffa è di 16,2 euro, oltre 4 volte inferiore rispetto alla valorizzazione adottata ad esempio in Spagna (71). Nel Regno Unito si va da 58 a 157 euro.
Emerge quindi – è la considerazione del Rapporto – una tendenza delle tariffe italiane alla sottostima dei costi realmente associati alle prestazioni cliniche degli specialisti e, una sovrastima dei costi associati ad alcune diagnostiche di alta complessità.