A Sanità Informazione il ricordo di Annalisa Malara, l’anestesista che ha diagnosticato il primo caso di Covid-19 in Italia e di Raffaele Bruno, l’infettivologo che ha curato il paziente numero 1, Mattia Maestri
Quel venerdì sera, ristoranti, bar, cinema, teatri erano affollati come al solito. Come in una qualsiasi altra delle serate invernali che separa i giorni lavorativi dal weekend. Nessuno, addormentandosi, avrebbe mai potuto immaginare che, aprendo gli occhi al mattino, si sarebbe ritrovato nel mezzo di un’epidemia. Il Covid-19 non era più confinato al lontano Oriente, aveva raggiunto anche l’Italia.
Era la notte tra il 21 e il 22 febbraio del 2020 quando Mattia Maestri, ricoverato all’ospedale di Codogno con sintomi respiratori, è risultato positivo al Covid-19. É stata l’anestesista Annalisa Malara ad intuire che quella di Mattia non era una comune polmonite.
«Mi trovavo di fronte ad caso clinico complicato – racconta Malara, ripercorrendo le ore precedenti alla prima diagnosi di Covid-19 -. Un giovane atleta con una polmonite in rapida progressione: nell’arco di 24 ore si era trasformata da una polmonite sfumata ad un quadro di ARDS (Sindrome da distress respiratorio acuto) severo. Una situazione atipica. Ancor più insolito che Mattia percepisse la polmonite in modo sfumato: diceva di non avere eccessive difficoltà respiratorie, ma i suoi parametri indicavano una gravissima insufficienza respiratoria. In più, la Tac e gli esami ematochimici indicavano una possibile causa virale. È stato in quel momento – sottolinea la specialista – che ho visto concretizzarsi l’ipotesi di trovarmi di fronte ad un caso di Sar-Cov-2».
Da lì a poche ore i risultati di laboratorio hanno trasformato quell’ipotesi in certezza: Mattia Maestri diventa il paziente italiano numero 1 affetto da Covid-19.
«Nonostante sia trascorso un anno – racconta ancora Annalisa Malara – ricordo questa giornata nei minimi dettagli. Da quel momento è cambiato il nostro modo di lavorare, ma anche la quotidianità di tutti gli italiani. Sono state ore cariche di emozioni, di paura, di ansie e di responsabilità. Quella prima diagnosi, in un paziente che non aveva nessun contatto diretto con la Cina, ci ha fatto capire che il virus non era più relegato in una zona remota del pianeta, ma era anche tra di noi. Dovevamo correre ai ripari il prima possibile».
L’intuizione dell’anestesista Malara ha trovato ancora una volta un riscontro reale: il pronto soccorso di Codogno comincia ad affollarsi di persone, tutte affette da sintomi respiratori. «A questo punto – dice la specialista – abbiamo davvero temuto di trovarci di fronte a qualcosa di molto più esteso di ciò che temevamo. All’inizio non avevamo nemmeno le armi giuste per combattere: sapevamo troppo poco di questo virus e la paura di essere di fronte a qualcosa di imbattibile era innegabile».
Poi, quando Mattia è uscito dalla terapia intensiva tutti hanno tirato un sospiro di sollievo: «Il paziente numero 1 è divento il simbolo della possibile vittoria su questo virus», commenta Malara.
Dopo aver ricevuto la diagnosi di Covid-19 Mattia Maestri è stato affidato alle cure di Raffaele Bruno, il direttore della clinica di Malattie Infettive al Policlinico San Matteo di Pavia. «In quel momento le uniche evidenze scientifiche sul trattamento di un paziente Covid venivano dalla Cina – racconta Bruno -. I report dei colleghi cinesi consigliavano l’utilizzo di un vecchio farmaco usato per l’HIV. Ma da quella notte, dal trattamento dei primi pazienti ad oggi, è cambiato quasi tutto. Conosciamo molto meglio l’evoluzione dell’infezione e, di conseguenza, i tempi e i modi di intervento». Accanto ai trattamenti, il progredire della pandemia ha cambiato anche alcuni aspetti della professione medica: «Siamo molto più vicini ai pazienti – racconta Bruno -. Sono lontani dai propri cari per settimane, così cerchiamo di vicariare questa assenza, migliorando l’aspetto umano della nostra professione».
Ma per il direttore della clinica di Malattie Infettive del Policlinico San Matteo di Pavia la vera conquista di questi 365 giorni che ci lasciamo alle spalle sono i vaccini: «Se mi avessero detto un anno fa che a quest’ora avremmo parlato di vaccino non ci avrei creduto. E considerando che il vaccino è il mezzo migliore per debellare, o quanto meno contenere l’infezione, per me in questo momento “il bicchiere è mezzo pieno”. A livello terapeutico non abbiamo ancora quella che gli inglesi chiamano la magic bullet, ovvero la terapia ottimale per sconfiggere questa malattia. Ma di studi in corso ce ne sono molti. Ed anche questi – conclude Bruno – fanno ben sperare».
E chissà se proprio grazie ai vaccini ed alle terapie che verranno riusciremo a rivivere un normale venerdì sera, con ristoranti, bar, cinema e teatri affollati. Per ricominciare proprio da dove le nostre vite sono state interrotte. Da quel venerdì che, pur sembrando come tanti, resterà impresso nella storia.
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