Con la legge del 13 maggio 1980 i pazienti psichiatrici vengono considerati persone da curare e non da internare. Una svolta epocale che ha cambiato il modo di prendersi cura della salute mentale, la formazione universitaria e la professione dello psichiatra. Ma il Presidente della Società Italiana di Psichiatria avverte: «Ancora oggi ci sono persone che hanno paura di accedere alla cura»
Non più matti da internare ma persone malate bisognose di cure. È questa la rivoluzione introdotta dalla legge del 13 maggio 1978 n.180, in materia di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, meglio conosciuta come legge Basaglia, dal nome dello psichiatra, neurologo e fondatore della concezione moderna della salute mentale che l’ha ispirata, Franco Basaglia.
«Prima dell’approvazione di questa legge di fronte ad una persona con disturbi mentali si interveniva con un procedimento di polizia, che aveva lo scopo di mettere al sicuro prima la comunità, poi il paziente. Ora è il solo diritto di cura a prevalere: anche un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio, ndr) ed un eventuale ricovero possono essere disposti solo per tutelare la salute dell’individuo coinvolto, che continua a godere di tutti i suoi diritti civili, in ogni momento del trattamento». È Bernardo Carpiniello, presidente della Società Italiana di Psichiatria (Sip) a ripercorrere i cambiamenti di una svolta epocale che, cominciata quarant’anni fa, ha nel corso del tempo modificato non solo il modo di prendersi cura della salute mentale, ma anche la formazione universitaria e la professione stessa dello psichiatra.
Che le patologie mentali dovessero essere trattate alla stessa stregua delle altre malattie, Franco Basaglia lo aveva capito già molti anni prima. Nel 1971, divenuto direttore del manicomio di Trieste, istituisce all’interno dell’ospedale psichiatrico laboratori di pittura, corsi di teatro e una cooperativa di lavoro per i pazienti, per permettergli di svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. Ma anche queste novità non gli sembrano sufficienti: per Basaglia i manicomi vanno chiusi, per lasciare spazio ad una rete di servizi esterni, in grado di provvedere all’assistenza delle persone affette da disturbi mentali.
La realizzazione di questo progetto non sarebbe dovuta partire da zero: «Già 10 anni prima – ha sottolineato il presidente della Sip – la legge Mariotti del ’68, pur non disponendo la chiusura dei manicomi, aveva messo le basi per la creazione di una rete territoriale di centri dedicati alla salute mentale: i Cim, i Centri di igiene mentale».
Nonostante la presenza di questi Centri, più radicati al nord che al sud, dalla legge Basaglia sono dovuti trascorrere ancora diversi anni, prima che potesse essere decretata l’effettiva chiusura di tutti i manicomi italiani: «In alcune regioni – ha sottolineato Carpiniello – gli ospedali psichiatrici sono stati definitivamente chiusi nel ’95. Da questo momento comincia a crearsi una rete di assistenza psichiatrica di comunità, a partire dagli ospedali, all’interno dei quali per la prima volta viene previsto un reparto, con non più di 15 posti letto, dedicato esclusivamente alla salute mentale. Una vera rivoluzione anche sociale: chi soffre di una patologia mentale viene curato in un ospedale al pari di chiunque abbia una qualsiasi altra patologia».
Man mano, questa rete è divenuta più ampia e organizzata con la comparsa di strutture territoriali e non territoriali, di centri di salute mentale e centri diurni per la riabilitazione. «L’ultimo tassello – ha aggiunto il presidente della Sip – sono state le strutture residenziali, luoghi in cui i pazienti possono essere ospitati per qualche mese, fino anche a due anni. Oggi, in Italia, accolgono 30 mila individui».
Questo stravolgimento organizzativo ha cambiato radicalmente anche la professione dello psichiatra. «Prima della legge Basaglia – ha raccontato Carpiniello – lo psichiatra lavorava esclusivamente all’interno di strutture dove i ricoverati erano centinaia, in alcune realtà se ne contavano fino a tremila. I manicomi erano nati alla fine dell’800, periodo in cui, in assenza di cure farmacologiche, non restava che rinchiudere questi pazienti. La vera rivoluzione è arrivata negli anni ’50 del secolo scorso, grazie all’avvento della psicofarmacologia. Patologie come la schizofrenia, la depressione o il disturbo bipolare potevano finalmente essere trattati sia farmacologicamente, che con nuove tecniche di psicoterapia. Grazie ai risultati ottenuti, molti pazienti potevano essere dimessi dagli ospedali psichiatrici».
È cominciata così una nuova era anche per la professione dello psichiatra: «Il suo lavoro non era più esclusivamente tra le mura di un manicomio, ma anche in ambulatori e studi privati. Lo psichiatra – ha raccontato Carpiniello – ha dovuto cominciare ad occuparsi anche della salute fisica del suo paziente, instaurando una collaborazione con i medici di famiglia. Ancora, ha dovuto imparare a gestire pure i problemi di natura sociale per il reinserimento del paziente nella vita di comunità e nel mondo del lavoro. Le famiglie, da quel momento, sono diventate i caregiver principali: in Italia l’80% delle persone affette da disturbi mentali gravi vive a casa con i propri cari. Oggi – ha sottolineato il presidente della Società di Psichatria – è possibile gestire tutte queste nuove richieste di cura grazie ad un lavoro in equipe con infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori».
L’esigenza di una collaborazione multidisciplinare tra professionisti ha richiesto una modifica anche della formazione. «Innanzitutto – ha commentato Carpiniello – la laurea in psichiatria, accorpata fino al ’79 a quella in neurologia, è diventata un percorso di studi indipendente. Poi, è nata la laurea in psicologia, e man mano altri percorsi ad hoc per formare educatori e tecnici della riabilitazione psichiatrica. Ancora, scuole di specializzazione in psichiatria e in psicoterapia».
Una straordinaria macchina del cambiamento che da quarant’anni continua a restare in moto. Con non poche difficoltà. «Le risorse economiche pubbliche dedicate alla salute mentale sono circa il 3,5% del Fondo sanitario nazionale – ha denunciato il presidente della Sip – Lo standard minino stabilito sarebbe almeno del 5%, cifra comunque esigua rispetto agli investimenti di Francia, Germania o Inghilterra, dove la stessa percentuale è di 16-17 punti. Mancanza di soldi che non permette di ammodernare strutture vecchie e fatiscenti, soprattutto nel centro-sud Italia. Per non parlare della carenza di personale causata dal blocco del tournover. Se i professionisti sono pochi, il tempo da dedicare ad ogni singolo paziente diminuisce».
Tagli del personale in controtendenza rispetto ad una richiesta di aiuto in aumento: «Arrivano in ambulatorio anche individui con disturbi meno gravi, come l’ansia. Persone – ha raccontato il presidente degli Psichiatri – che prima ricorrevano al privato e che ora, a causa della crisi economica, non possono più permetterselo».
Eppure, questo numero di pazienti sarebbe destinato a crescere ulteriormente: «Non tutti coloro che hanno bisogno di aiuto – ha detto Carpiniello – trovano il coraggio di chiederlo. Ancora oggi, ci sono persone che hanno paura di accedere alla cura. Temono di essere emarginati, etichettati».
A quarant’anni dalla legge Basaglia, la rivoluzione culturale non è ancora finita: «C’è ancora – ha concluso il presidente della Sip – chi proverebbe vergogna ad accomodarsi nello studio di un psichiatra».