Il virologo veneto, già Presidente della Società Europea di Virologia, spiega dove si può intervenire per contenere i contagi: «Stop alla movida, contingentare gli ingressi nei supermercati e ridurre la capienza dei mezzi pubblici. Ma dico no a un nuovo lockdown». Poi ammonisce: «Attenzione a dimenticare le altre patologie o rischiamo guai peggiori»
«Dobbiamo evitare gli assembramenti di qualsiasi natura ma ritengo che un lockdown generalizzato come quello della scorsa primavera sia improponibile». A parlare è Giorgio Palù, virologo trevigiano tra i più titolati in Italia: oltre ad essere stato fondatore e presidente della Società Europea di Virologia, ha al suo attivo oltre 600 pubblicazioni scientifiche ed è stato prorettore dell’Università di Padova, Preside della Facoltà di Medicina e fondatore della più grande Scuola di Microbiologia d’Italia.
«La curva dei contagi sta avendo un’impennata di tipo esponenziale» sottolinea Palù, secondo cui la colpa di questa crescita «è sicuramente legata alle attività connesse alla riapertura delle scuole, non tanto per le lezioni in sé ma per il fatto che si sono mossi otto milioni di studenti. Poi influisce anche la stagionalità del virus. La curva va tenuta bassa ma penso che un lockdown generalizzato sia insostenibile: con 2600 miliardi di debito, un rapporto deficit/Pil del 161%, una produttività che è l’ultima tra i paesi Ocse, a questo punto non ci riprenderemmo più».
Ma allora come fare per abbassare la curva? Secondo il virologo veneto la strada non può essere quella della chiusura delle scuole («metterebbe le generazioni future in grande difficoltà», spiega) ma si può intervenire sugli affollamenti: «Penso a contingentare gli ingressi, ad esempio, dei supermercati, a fermare la movida e soprattutto a intervenire sui trasporti pubblici: purtroppo l’ultimo Dpcm non ha ridotto la capienza massima sotto l’80%».
I dati di questa seconda ondata parlano però di un numero di asintomatici decisamente superiore a quello della prima, quando non si era ancora in grado di intercettarli: secondo l’ultimo report dell’ISS gli asintomatici sono almeno il 70%. Ma secondo Palù sono anche di più. «Prendiamo i dati del 19 ottobre: 7200 persone in ospedale, 770 in terapia intensiva. I casi attivi in Italia sono attorno a 140mila: sono il 5% in area non critica, lo 0,6% in area critica, dunque il 94% è asintomatico o paucisintomatico».
Secondo il virologo «gli asintomatici non sono da considerare malati». Questo per via della tipologia di test a cui sono sottoposti. «Trovare un soggetto positivo a un tampone molecolare non significa trovare necessariamente un malato – spiega Palù -. E non significa neanche che sia per forza contagioso. È dimostrato che per contagiare bisogna avere una carica virale elevata, superiore al milione di genomi: quello che il test molecolare non determina, perché è un test molto sensibile che amplifica milioni di volte il genoma, si chiama Polymerase Chain Reaction (PCR). E quando si amplifica il genoma milioni di volte, e si arriva ad amplificarlo dopo 30 o 32 cicli, quello che si rileva è una presenza di genoma virale che può essere insufficiente. Non è neanche detto che sia un virus vivo».
Per questo Palù chiede alla stampa di essere precisa su questo punto: «Positivo non vuol dire né malato né contagioso. Quando si parla di contagi bisognerebbe spiegare bene cosa si intende. Il contagio è il passaggio di una infezione, ma infezione non vuol dire malattia e repertare un frammento di RNA del virus non significa che ci troviamo di fronte a un virus infettante. È possibile che sia un virus non più in grado di infettare perché magari fa parte di una particella assunta da un ambiente atmosferico e che quel virus sia stato già inattivato dalla radiazione solare».
Anche sul tasso di letalità (proporzione percentuale di decessi per una determinata malattia sul totale dei soggetti ammalati in un determinato arco temporale) Palù fa un ragionamento difforme da quello di molti suoi colleghi. «Guardiamo i dati nel mondo: sono 40 milioni le persone positive confermate al test. Se compariamo questo numero a quello dei decessi, un milione e 100mila persone circa, ci si accorge che la letalità è al 2,78%. Ma se lei considera che i testati sono una parte inferiore del numero reale di positivi, forse 4-5 volte in meno perché non tutti i paesi sono in grado di testare tutti, allora lei capisce che dal 2,78% si scende allo 0,5%».
«Ci sono degli studi ben fatti in Islanda, in Cina, negli USA e in Germania – continua Palù – secondo cui la letalità va studiata non sui casi confermati positivi al virus ma su quelli positivi agli anticorpi. Si chiamano studi di sieroprevalenza perché chi è venuto in contatto col virus nel 90% dei casi sviluppa gli anticorpi. Sono questi dati che ci danno un’idea precisa di quanto il virus è circolato. In uno studio importante apparso sul New England Journal of Medicine fatto in Islanda e basato su decine e decine di migliaia di persone, hanno visto che la letalità è dello 0,3%. In ogni caso altri studi l’hanno collocata tra lo 0,5 e lo 0,6%. Vuol dire quattro o cinque su mille. Non è l’influenza, che è uno su mille, ma altre malattie infettive sono più letali come ad esempio le broncopneumopatie ostruttive».
Di fronte a una malattia sicuramente insidiosa ma meno di altre, secondo il virologo veneto, bisognerebbe «mettere sul tappeto un’analisi che valuti il rischio costi-benefici. Posso permettermi di dedicare tutte le risorse al Covid e dimenticare tutte le altre patologie? Le malattie cardiovascolari e i tumori hanno una mortalità molto superiore. C’è da fare un’analisi precisa».
Quando gli viene chiesto perché questo tipo di analisi non è mai stata fatta, Palù punta anche il dito contro l’informazione e alcuni colleghi: «L’analisi ragionata non è mai stata fatta perché c’è una rincorsa anche da parte dell’informazione a diffondere notizie allarmistiche. Parlare di contagiati ha un effetto che è superiore a parlare di positivi al tampone. Ci sono troppi pseudovirologi in tv, personaggi più o meno accreditati, più o meno esperti, spesso annebbiati dalla luce dei riflettori. C’è gente che ha una dipendenza dalle interviste. Ora grazie a internet tutti parlano di medicina, tutti si sentono autorizzati a dire la loro e dicono “moriremo tutti”».
«Credo che una lezione importante da imparare da questa pandemia sia la necessità di comunicare con termini scientifici, con dei comunicatori scientifici che valutino in maniera asettica a 360 gradi i dati epidemiologici. Noi abbiamo un po’ abdicato alla cultura della scuola, allo “studio matto e disperato” come diceva Leopardi, alla filosofia che si insegna poco, al ragionamento critico», conclude.
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