In occasione della Festa della Donna, quattro professioniste – una geriatra, una psicologa, una neolaureata in Medicina e un’infermiera – raccontano, a Sanità Informazione, le difficoltà che una donna affronta nel mondo del lavoro ai tempi del Covid-19
«Se in una famiglia viene a mancare la donna non c’è più il perno attorno al quale ruota tutto». Liana Berishvili, geriatra, ne è sempre stata convinta, ma quando si è allontanata da casa perché risultata positiva al Covid-19, ne ha avuto la conferma. Per Elisabetta Ciuffo, psicologa, il periodo di quarantena si è trasformato in un momento dedicato interamente a sé stessa: «Quante cose una donna non riesce mai a fare se non quando si ammala?», chiede. Rachele Azzarone, neolaureata in Medicina, invece, nonostante la sua giovane età, grazie al suo faccia a faccia con il virus ha toccato con mano quanto la salute possa essere fragile: «Ognuno di noi, anche il più sano – dice – può ammalarsi da un momento all’altro».
Liana, Elisabetta e Rachele sono tre delle otto donne che hanno deciso di farsi portavoce delle difficoltà che il genere femminile affronta quotidianamente nel mondo del lavoro, partecipando al progetto dell’ANMIL (L’Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro) “Lavoratrici contro Covid: 8 storie di resilienza per l’8 Marzo”.
Già prima della pandemia, conciliare le esigenze familiari con quelle lavorative rappresentava una forte criticità del welfare italiano. Poi, l’esplosione dell’emergenza, la didattica a distanza e la chiusura di tutte le attività ricreative, hanno complicato ancora di più la vita delle donne, divise tra la cura dei figli e gli impegni professionali. Restare in equilibrio è stato ancora più complicato per coloro che non hanno potuto usufruire dello smartworking, come è accaduto alla maggior parte delle professioniste sanitarie impiegate nel Sistema Sanitario Nazionale.
Secondo i dati INAIL, elaborati a settembre 2020, il 70% dei contagi da Sars Cov-2 tra i lavoratori hanno coinvolto il sesso femminile. Gli operatori della sanità e del sociale (impiegati in ospedali, case di cura e di riposo, istituti, cliniche e policlinici universitari, residenze per anziani e disabili) sono di gran lunga i più colpiti: nel 71,9% dei casi sono state le donne a contrarre il Covid-19. La categoria con il maggior numero di contagi è quella infermieristica, seguita dagli operatori sociosanitari e socio-assistenziali, da medici e personale non qualificato nei servizi sanitari (ausiliario, portantino, barelliere).
Tra gli specialisti, Liana Berishvili, è stata una dei primi medici ad essere contagiata dal Covid-19. «Non sono neppure riuscita ad avere una diagnosi: all’inizio della pandemia non era semplice fare un tampone. Tutto è cominciato con febbre e tanta stanchezza, ma dopo venti giorni sono tornata al lavoro, a gestire un reparto Covid. Trascorsa poco più di una settimana dal mio rientro – racconta la geriatra – sono crollata: ho sentito che mi mancava la terra sotto i piedi. Temevo di avere un infarto, invece la Tac ha evidenziato focolai da polmonite». Sono seguiti tre mesi di isolamento, lontano dal marito e dalla figlia. «Nonostante facesse freddo, dormivo con le finestre aperte per placare la mia fame d’aria. Sensazione che ancora oggi rivivo, di tanto in tanto», dice la specialista. E durante quelle interminabili settimane la dottoressa Berishvili ha avvertito ancora di più il peso di essere donna: «La mia famiglia ha sempre accettato che mi assentassi per lavoro, ma quando una donna si allontana da casa si sente comunque e sempre colpevole, a prescindere dai motivi più o meno validi – spiega la geriatria -. Un uomo che trascorre molto tempo fuori casa non proverà mai gli stessi sensi di colpa. Ne sono certa». Per la dottoressa Berishvili si tratta di un macigno enorme, così pesante, da averla spinta a dissuadere sua figlia dall’intenzione di seguire le sue orme: «Vittoria – le ha detto – pensaci bene. Non solo devi stare tante ore lontano da casa, ma finisci per portare il peso psicologico di questo lavoro anche quando ti togli il camice».
Un peso che Rachele Azzarone, neolaureata in Medicina, nonostante i suoi 25 anni, ha già cominciato a percepire. Di origini foggiane, si è ritrovata ad affrontare il Covid in completa solitudine nella Capitale, dove ha scelto di vivere proprio per realizzare il suo sogno di indossare quel camice bianco. Per ora, la pandemia, pur avendo messo la sua carriera in stand-by, le ha permesso di apprendere un’importante lezione di vita: «Non è mai troppo presto per incominciare a prendersi cura di sé», dice il giovane medico parlando della sua esperienza.
Elisabetta Ciuffo, 56 anni, psicologa in un centro di salute mentale dell’Asl Roma 1, dopo un primo momento di paura e sconforto, ha subito cercato un lato positivo e l’ha trovato. «Alla notizia sono scoppiata a piangere, ma poi ho capito che la positività al Covid-19 poteva essere un momento di riposo, un’occasione per fare un viaggio nella mia interiorità». Ed oggi, da psicologa, la dottoressa Ciuffo, a chi dovesse trovarsi nella sua situazione consiglia di «prendersi cura di sé e di essere solidale con gli altri, perché – dice – non c’è niente di più nutriente dell’affetto delle persone».
E se donne come Liana, Rachele o Elisabetta, sono state costrette a mettere in pausa vita e lavoro per superare la malattia, altre hanno continuato ad impegnarsi sul fronte, schierate in prima linea nella lotta contro il Covid-19. Come è accaduto ad Immacolata De Simone, donna, madre, moglie e infermiera al reparto di sub-terapia intensiva neonatale del Policlinico di Milano. «Appena è esplosa la pandemia mi sono allontanata da mio marito e dalle mie due figlie – racconta -. Chiunque lavorasse in ambito sanitario, soprattutto nelle zone più colpite dall’emergenza, aveva “la sindrome dell’untore“: sapevamo poco o nulla di questo virus e la paura di contagiare i propri cari era inevitabile». Trascorsa la prima fase dell’emergenza, Immacolata ha deciso di non lasciarsi abbattere dalle difficoltà, anzi di impegnarsi al punto tale da uscirne più forte di prima. «Il Covid mi ha spinto a crescere professionalmente: sono diventata prima sindacalista della Fials e poi membro della Commissione d’albo dell’Opi di Milano», dice.
Immacolata ha trascorso molto tempo a scrivere, condividendo quotidianamente i suoi pensieri attraverso post scritti sui social. Ed anche nel giorno della Festa della Donna ha voluto lanciare un messaggio: «Credo che il Covid abbia reso maturi i tempi per spiegare alla gente che cosa fa e chi è un infermiere, una professione che nel 78% dei casi è svolto da donne. Un infermiere lavora di giorno e di notte, nei giorni feriali e in quelli festivi. È accanto alle persone, resta quando non c’è più nulla da fare, quando si riceve una diagnosi e quando c’è da riprendersi un pezzo di vita e riconquistare delle abilità che sono momentaneamente perse. C’è per soccorrere, supportare, far nascere e, soprattutto, far rinascere. Un infermiere – continua Immacolata – fa tutte queste cose grazie a delle competenze tecniche, relazionali, emotive. E vorrei che oggi, nonostante si celebri la festa della donna, il mio pensiero possa arrivare a tutti i colleghi, senza distinzione di sesso. Ringrazio da cittadina tutti coloro che sono impegnati nella lotta al Covid-19, perché il lavoro che facciamo, nonostante tutto – conclude l’infermiera – è il più bello del mondo».
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