L’Associazione Coscioni: «La più grave disapplicazione della 194». I risultati dell’indagine “Mai dati!”
In Italia ci sono almeno 15 ospedali (ma il numero è in continua evoluzione) in cui il 100% dei ginecologi è obiettore di coscienza. È il dato principale che emerge dall’indagine “Mai dati!” presentata nei giorni scorsi durante il Congresso Nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, a cura di Chiara Lalli, scrittrice e docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista. Un dato che non compare nella Relazione sulla legge 194/78 del Ministero della Salute, che, aggregando i dati per Regione, di fatto non rende pubbliche le percentuali di obiettori sulle singole strutture. Secondo la Relazione, infatti, la percentuale più alta di obiettori è dell’85,8% in Sicilia.
L’indagine, nata con l’obiettivo di appurare se la legge 194/78 sulla interruzione volontaria della gravidanza sia effettivamente applicata, evidenzia come la Relazione sulla stessa legge del Ministero della Salute pubblicata lo scorso 16 settembre e i dati in essa contenuti restituiscano una fotografia poco utile, sfocata, parziale di quanto avviene realmente nelle strutture ospedaliere del nostro Paese. Alla richiesta di accesso civico a tutte le ASL e alle aziende ospedaliere censite dal Ministero della Salute, ha risposto circa il 60% (al 30 settembre 2021). I risultati dell’indagine saranno aggiornati non appena saranno disponibili tutte le risposte.
Tra i dati più interessanti emersi finora, le 15 strutture ospedaliere in cui il 100% dei ginecologi è obiettore e i 5 presidi in cui la totalità del personale ostetrico o degli anestesisti è obiettore. Ci sono poi 20 ospedali con una percentuale di medici obiettori che supera l’80%. E altri 13 quelli con una percentuale di personale medico e non medico che supera l’80%. Le Regioni in cui ci sono ospedali con il 100% di ginecologi obiettori di coscienza sono Lombardia, Liguria, Piemonte, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Basilicata, Campania, Puglia: un dato estremamente trasversale.
«Non è certo un dato che ci coglie di sorpresa – spiega Chiara Lalli, autrice dello studio –. Purtroppo, al di là dei sensazionalismi scaturiti periodicamente da casi di cronaca, si fa ben poco per cambiare il sistema dal profondo. Un sistema, quello della legge 194, che evidentemente ha delle lacune, e anche dei paternalismi anacronistici, se permette tali storture, a partire dai famosi “7 giorni di riflessione” imposti alla donna tra l’emissione del certificato per l’IVG e l’intervento. Il caso isolato della donna che non riesce ad abortire fa scalpore – osserva Lalli – ma dobbiamo iniziare a leggere i dati nella loro totalità, e i dati ci dicono che in Italia una donna che vuole abortire deve essere “fortunata” a non incappare in determinati reparti. E non tutte possono scegliere, perché magari vivono in una città dove c’è un solo ospedale oppure in una regione dove c’è un unico non obiettore».
Doversi recare in un’altra città o addirittura in un’altra Regione per abortire «si traduce in tempo perso, (perché ricordiamo che l’interruzione volontaria di gravidanza può effettuarsi entro le 12 settimane), e in un aggravio di tutti gli addentellati morali, psicologici, anche clinici per la donna. Si tratta di uno degli aspetti più gravi di non applicazione della legge 194 – aggiunge l’autrice – che dice che l’obiezione non deve essere di struttura e che il servizio va garantito. I dati dovrebbero essere pubblicati regolarmente e in modo diverso: aperti e dettagliati sulle singole strutture, come previsto dal codice dell’amministrazione digitale per il principio della trasparenza e dell’accessibilità dei dati. Solo così la donna può davvero scegliere in quale ospedale recarsi, sapendo prima qual è la percentuale di obiettori nella struttura scelta».
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