Quasi un sanitario su 10 “eviterebbe il contatto fisico con una persona Hiv-positiva” ed uno su quattro, prestando assistenza a un paziente con l’infezione, “indosserebbe i doppi guanti”
Sono trascorsi 23 anni da quando il professore Fernando Aiuti, pioniere della lotta contro l’Hiv, ha dato un bacio sulle labbra ad una donna sieropositiva, Rosaria Iardino. Era il 1991. Oggi, come allora, quel gesto è un simbolo nella lotta contro lo stigma verso chi è affetto da Aids. Una lotta tuttora in corso. Nonostante numerose evidenze scientifiche abbiamo dimostrato che il contatto non è causa di contagio, c’è ancora chi fatica a ‘convincersene’. E non è tutta colpa della scarsa cultura o della poca informazione sull’argomento. Quasi un sanitario su 10, che per il ruolo che riveste dovrebbe essere più che informato sulla ‘questione’, “eviterebbe il contatto fisico con una persona Hiv-positiva”, tanto che uno su quattro, prestando assistenza a un paziente con l’infezione, “indosserebbe i doppi guanti”. Sono solo alcuni dei dati contenuti nel Rapporto del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) e della European Aids Clinical Society (Eacs).
Il Report rientra tra le attività che l’Eccd conduce per valutare i progressi nell’attuazione della Dichiarazione di Dublino sul partenariato per combattere l’Hiv/Aids in Europa e in Asia centrale, attraverso rapporti tematici e documenti. I risultati saranno presentati alla 25esima Conferenza internazionale sull’Aids in programma il 26 luglio a Monaco di Baviera (Germania). Il documento rileva “lacune significative” sulle modalità di trasmissione e prevenzione dell’Hiv, particolarmente preoccupanti perché “questa mancanza di conoscenza è associata a livelli maggiori di stigma e discriminazione” verso i pazienti, “ostacolando gli sforzi per raggiungere l’obiettivo di sviluppo sostenibile di porre fine all’Aids entro il 2030”.
Dal report emerge che un operatore sanitario su quattro ignora l’equazione U=U (Undetectable=Untrasmittable), che significa che le persone con Hiv, se raggiungono e mantengono una carica virale non rilevabile, non possono trasmettere l’infezione ad altri. Il 44% non conosce la profilassi post-esposizione (Pep), quasi il 60% ignora la profilassi pre-esposizione (Prep) e meno di un terzo degli intervistati conosce bene tutte e tre i concetti (U=U, Pep e Prep). “Alcuni sanitari – indica ancora il Rapporto – hanno espresso riserve sul fornire assistenza a popolazioni chiave a più alto rischio Hiv: da chi fa uso di droghe iniettabili ai maschi che hanno rapporti sessuali con maschi, dai lavoratori del sesso a persone transgender”. Sono state segnalate poi vere e proprie “pratiche discriminatorie”, con più di un interpellato su ciqnue che ha testimoniato la riluttanza a fornire assistenza a persone che vivono con l’Hiv o sono a rischio di contrarlo. Infine, quasi un terzo degli intervistati ha ascoltato commenti discriminatori o negativi su pazienti Hiv-positivi e quasi il 20% ha assistito alla divulgazione dello stato di sieropositività senza consenso.
Teymur Noori, esperto di Hiv dell’Ecdc e coordinatore dello studio, rileva “un urgente bisogno di interventi robusti e articolati per eliminare lo stigma, migliorare la conoscenza dell’Hiv tra gli operatori sanitari e garantire cure eque e non stigmatizzanti per tutte le persone che convivono con il virus. Affrontare questi problemi è essenziale – avverte – per raggiungere l’obiettivo globale di porre fine all’epidemia di Aids entro il 2030”. Noori pensa ad attività di educazione e linee guida, interventi cruciali anche perché fra le conseguenze dello stigma ci sono le cure tardive, l’evitamento delle strutture sanitarie e la scarsa aderenza ai farmaci.
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