Identificate “configurazioni molecolari” anomale nella corteccia cerebrale dei pazienti. «Spiragli aperti per nuovi approcci terapeutici»
La schizofrenia è una patologia psichiatrica severa che colpisce approssimativamente l’1% della popolazione mondiale. Ha un andamento cronico, ed esordisce in giovani adulti con notevole impatto sulla vita sociale degli ammalati e delle loro famiglie. Ma la schizofrenia è una delle patologie neuropsichiatriche dalle cause più oscure: la componente genetica è acclarata, ma non sufficiente a determinare il manifestarsi della malattia, essendo necessarie una serie di interazioni tra fattori genetici e ambientali che sopraggiungono a livello prenatale e nei primi anni di vita (ad esempio, complicanze ostetriche/prenatali, stress psicosociale, etc.) a causare quella vulnerabilità che poi, in età giovanile, darebbe esordio alla malattia.
Oggi, tuttavia, uno studio condotto nel Laboratorio di Neuroscienze Traslazionali del CEINGE-Biotecnologie avanzate di Napoli, diretto dal professor Alessandro Usiello, ha permesso di identificare delle specifiche alterazioni nella comunicazione neuronale che giocherebbero un ruolo significativo nel determinare l’insorgenza della schizofrenia.
Lo studio è stato svolto in collaborazione con i gruppi di ricerca guidati da Andrea Fontana, coordinatore dell’Unità di Biostatistica della Fondazione IRCCS “Casa Sollievo della Sofferenza”, dell’Università di Bari guidati da Antonio Rampino, coordinatore del Laboratorio di Psichiatria molecolare e Genetica, e da Alessandro Bertolino, professore ordinario di Psichiatria, e con Andrea de Bartolomeis, responsabile del Laboratorio di Psichiatria molecolare e traslazionale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e direttore dell’UOC di Psichiatria e Psicologia del Policlinico federiciano.
Ne abbiamo conosciuto i dettagli grazie al professor Francesco Errico, docente di Biochimica presso il dipartimento di Agraria della Federico II e ricercatore del Laboratorio di Neuroscienze Traslazionali del CEINGE.
«Prima di addentrarci nei dettagli dello studio – esordisce Errico – è importante una premessa: dal punto di vista farmacologico, nel trattamento del paziente schizofrenico, una delle conseguenze di questa nebulosità di informazioni sull’eziopatogenesi è che le opzioni terapeutiche ad oggi disponibili si rivelano utili per mitigare solo una parte dei sintomi di questa patologia, a fronte di importanti effetti collaterali. E’ proprio sul tipo di approccio terapeutico, infatti, che confidiamo possano aprire scenari significativi i risultati del nostro studio».
«Attraverso delle analisi su campioni postmortem della corteccia prefrontale e ippocampo di soggetti schizofrenici e sani – spiega Errico – abbiamo esaminato i cosiddetti componenti della sinapsi glutamatergica, ossia quella rete di connessioni esistenti tra neuroni guidata dal glutammato, che è un fondamentale neurotrasmettitore, il più abbondante del nostro sistema nervoso. La prima strada che abbiamo intrapreso è stata esaminare i livelli di proteine e amminoacidi della sinapsi glutamatergica, e abbiamo notato che nessuna molecola presa singolarmente era a livelli diversi tra i pazienti schizofrenici e i soggetti sani. A questo punto – continua il ricercatore – è entrato in gioco l’algoritmo matematico che, mediante l’utilizzo di avanzate tecniche analitiche basate sul “machine learning”, una branca dell’intelligenza artificiale, ha analizzato tutte le possibili interazioni tra tutte le molecole individuando una specifica rete di interazione tra le stesse associata ad un rischio maggiore di schizofrenia».
«Per rendere meglio il concetto – osserva Errico – possiamo pensare ad un’orchestra: anche se ogni strumento, preso singolarmente, ci sembra intonato, non è detto che tutti insieme possano dare un suono armonico. È esattamente quello che succede con queste molecole: questa connessione “disarmonica” porta a una disfunzione neuronale che prelude alla schizofrenia. La scoperta – precisa il professore – è importante soprattutto perché incide su quello che potrebbe essere l’approccio farmacologico d’ora in avanti. Alla luce di quanto emerso, infatti – conclude – sarà importante intervenire non solo sulle singole molecole ma anche sul ripristinare le giuste interazioni tra di esse».
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