I ricercatori hanno deciso di analizzare le scelte dei clienti dei ristoranti inglesi a due anni dall’introduzione dell’obbligo di indicare le calorie di tutti i piatti serviti nelle catene di ristorazione
Se ci siamo seduti ad un tavolo di un ristorante con l’intenzione di gustare una specifica pietanza, non sarà di certo il numero di calorie a spaventarci. Conoscere il contenuto calorico di un piatto, secondo quanto suggerito da uno studio coordinato dall’University of Liverpool e pubblicato su Nature Human Behaviour, non incide molto sulle decisioni finali. I ricercatori hanno deciso di analizzare le scelte dei clienti dei ristoranti inglesi a seguito dell’introduzione dell’obbligo di indicare le calorie di tutti i piatti serviti nelle catene di ristorazione. Un novità che, a distanza di due anni, pare non abbia avuto particolari effetti sul comportamento alimentare delle persone.
“Il cibo servito ‘fuori casa’ tende ad essere ad alta densità energetica e ad alto contenuto di kilocalorie”, spiegano i ricercatori. Anche per questo, “il consumo frequente di cibo fuori casa è associato a un aumento del rischio di obesità”. Da qui la scelta dell’Inghilterra, nel 2011, di consigliare alle catene di ristorazione di indicare sui menù il contenuto calorico di ciascun piatto, con la speranza che ciò servisse a guidare le scelte alimentari dei clienti. Dal 2022 questa indicazione è diventata un obbligo che si applica alle catene con più di 250 dipendenti. I ricercatori hanno valutato l’efficacia di questa misura, conducendo due sondaggi, uno prima e uno dopo l’introduzione dell’obbligo, coinvolgendo oltre 6.500 persone all’uscita dei ristoranti.
Lo studio ha rilevato che, in effetti, avere sul menù la conta delle calorie aumenta la consapevolezza dei clienti: è raddoppiata, passando dal 16,5% al 31,8%, la quota di quanti erano a conoscenza delle calorie dei piatti da loro consumati. Tuttavia, quanto a efficacia, la misura si è dimostrata un fallimento. “L’introduzione dell’etichettatura calorica obbligatoria, da sola, non è stata associata a cambiamenti dietetici significativi nei contesti alimentari fuori casa”, spiega la prima firmataria dello studio Megan Polden. Ma per i ricercatori non tutto è perduto. Se, la norma, presa singolarmente, è inefficace è possibile che insieme ad altre politiche nel lungo periodo possa contribuire a “un graduale cambiamento delle norme sociali” sul cibo ad alto contenuto calorico, concludono.
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