Il peso influisce sulla salute del cuore. Tanto che oltre la metà delle malattie cardiache dipende dai chili di troppo e da quando questo eccesso perdura nel tempo. A lanciare l’allarme “cardiobesità” sono gli esperti della Società Italiana di Cardiologia
Il peso influisce sulla salute del cuore. Tanto che oltre la metà delle malattie cardiache dipende dai chili di troppo e da quando questo eccesso perdura nel tempo. Per ogni 2 anni in più vissuti con peso extra, il rischio cresce del 7%. A lanciare l’allarme “cardiobesità” sono gli esperti della Società Italiana di Cardiologia (SIC), riuniti a Roma dal 12 al 15 dicembre per l’85esimo congresso nazionale. Stando a quanto riportato dagli specialisti della SIC, non solo infarto e ictus, ma anche scompenso cardiaco e fibrillazione atriale dipendono direttamente dai chili di troppo che affliggono 4 italiani su 10 obesi o in sovrappeso. I soggetti obesi presentano un rischio di fibrillazione atriale di quasi il 50% più alto rispetto agli individui normopeso, del 64% di andare incontro a infarto e ictus e del 30% di sviluppare scompenso cardiaco.
“Oggi parliamo ormai di cardiobesità per sottolineare lo stretto e pericoloso legame tra eccesso ponderale ed eventi cardiovascolari”, dichiara Pasquale Perrone Filardi, presidente SIC e direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli. “In quest’ottica va condannato il body shaming ma non va ‘normalizzata’ l’obesità perché è una malattia cronica di per sé che causa l’insorgenza di oltre la metà delle malattie cardiache, come amplificatore del rischio cardiovascolare sia in modo mediato che diretto. L’eccesso adiposo, infatti, non solo potenzia i fattori di rischio tradizionali come pressione alta, colesterolo, trigliceridi e diabete di tipo 2, ma comporta – continua – anche un incremento dell’infiammazione generale e del grasso viscerale con l’irrigidimento delle arterie (aterosclerosi) che possono aumentare il rischio di coaguli di sangue e causare ictus”.
Anche la durata dell’obesità pesa sul cuore. Questo “a causa della progressiva calcificazione coronarica”, afferma Ciro Indolfi, past-President della SIC e professore straordinario di Cardiologia all’Università della Calabria di Cosenza. “Convivere con i chili in eccesso per decenni, ma anche solo per qualche anno, può fare la differenza per la salute di arterie e coronarie. Infatti – continua – per ogni 2 anni vissuti in condizioni di obesità, aumenta del 7% il rischio e la mortalità per malattie cardiovascolari, come infarto e ictus”. È quanto emerge da una review pubblicata di recente su Frontiers in Cardiovascular Medicine, condotta dall’Università Sapienza e dall’IRCCS San Raffaele di Roma, nella quale si fanno riferimento ai dati relativi a 5036 individui di età compresa tra i 28 e i 62 anni, seguiti e monitorati per rischio cardiovascolare ogni 2 anni, per oltre 30 anni.
“È importante sottolineare, però, che basta un calo di peso di 1 kg su 10 per ridurre del 21% il rischio di eventi cardiovascolari maggiori nei successivi 10 anni”, afferma Francesco Barillà, presidente della Fondazione Cuore siamo Noi della SIC. A confermarlo, uno studio pubblicato su The Lancet Diabetes & Endocrinology condotto su circa 5 mila pazienti con età compresa tra 45 e 76 anni. “Si tratta di un obiettivo realistico – continua Barillà – che può rientrare tra i buoni propositi per il nuovo anno, perché perdere anche solo il 10% del proprio peso permette a chi ha un po’, o tanti chili di troppo, di raggiungere una condizione di ‘fitness metabolico‘, cioè di migliorare o riequilibrare tutta una serie di alterazioni conseguenti all’eccesso di peso, come glicemia, trigliceridi e grassi nel sangue che si traducono in una riduzione del rischio cardiovascolare”.
Se l’eccesso di peso è responsabile delle principali malattie cardiovascolari, la bilancia però conta meno della misura del grasso viscerale che può essere calcolato in modo semplice con l’indice di rotondità (BRI – Body Roundness Index). Un parametro che misura il girovita in rapporto all’altezza, in grado di prevedere il rischio cardiovascolare che è più alto del 22% in chi ha un valore BRI moderato, che sale al 55% in chi ha un valore di BRI elevato. A dimostrarlo uno studio pubblicato di recente sul Journal of American Heart Association e condotto dal Centre for Diseases, Control and Prevention dell’Università di Nanchino. “Più esposti a rischio cardiovascolare – spiega Perrone Filardi – i soggetti a ‘mela’, che accumulano il grasso sull’addome, con girovita superiore agli 88 centimetri nelle donne e ai 102 centimetri negli uomini, rispetto a chi è a ‘pera’, con deposito di grasso su fianchi e cosce. Ma, per la salute del cuore, il girovita deve essere, soprattutto, circa la metà dell’altezza, un rapporto misurato dall’indice di ‘rotondità’ che è in grado di prevedere il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari”.
Lo studio che ha validato il BRI è stato condotto su quasi 10.000 persone, con età media di 58 anni all’inizio dell’osservazione, seguiti per sei anni. Sono state rilevate le misurazioni e dettagliati i cambiamenti delle variazioni dell’ovale tra pancetta e altezza dei partecipanti. Dall’analisi dei dati è emerso che, rispetto al gruppo con livelli di BRI bassi, il rischio di malattie cardiovascolari con livello di BRI moderato aumenta del 22% e sale addirittura al 55% nei gruppi con livello di BRI alto. “Questi risultati suggeriscono che la misura della rotondità può essere utilizzata per prevenire le malattie cardiovascolari ed essere uno screening molto semplice – sottolinea Barillà -, perché tanto più la misura del girovita si avvicina all’altezza, tanto maggiore sarà la ‘rotondità’ e, di conseguenza, più alto il rischio cardiovascolare. Ad esempio, se un individuo è alto 170 centimetri e il suo girovita supera i 110 centimetri, il BRI sarà elevato e il rischio cardiovascolare risulterà raddoppiato rispetto a quello di un individuo con BRI normale”.
L’obesità fino a qualche tempo fa era considerata una condizione sulla quale, oltre che con la strategia dietetica e l’esercizio fisico, non si poteva fare molto. Attualmente può considerarsi “trattabile”, grazie a nuove classi di farmaci che si sono rivelati, o si potrebbero rivelare, molto efficaci non solo sulla perdita di peso, ma anche sulla riduzione dell’incidenza di infarto ictus e dei fattori di rischio cardiovascolari. Tra i nuovi farmaci è da poco disponibile in Italia Tirzepatide, tra gli ultimi trattamenti più promettenti, recentemente autorizzato da AIFA contro l’obesità associata a diabete di tipo due. “Con Tirzepatide – dichiara Indolfi – si apre una nuova era legata al suo duplice meccanismo di azione. Infatti è il primo farmaco che permette di agire su due recettori GIP e GLP/ 1 che, attivati a livello gastrointestinale in risposta ai pasti, sono responsabili del processo che regola il rilascio di insulina in base alla glicemia. Questa duplicazione ne amplifica l’efficacia sia nel controllo del diabete che nella riduzione del peso come dimostra lo studio SURMOUNT – 1 pubblicato sul New England Journal of Medicine“.
“I risultati della ricerca – sottolinea Perrone Filardi – mettono, infatti, in luce una riduzione del rischio di diabete di tipo due fino al 94% e una perdita di peso fino al 23% mantenuta nei tre anni di trattamento. Questi dati aprono una nuova prospettiva perché non solo convalidano l’efficacia del farmaco sul controllo della glicemia, sulla perdita di peso e sul suo mantenimento a lungo termine, ma potranno rivelarsi dirompenti, con benefici aggiuntivi anche nella prevenzione delle complicanze cardiovascolari, considerato il ruolo chiave dell’obesità nel determinare le patologie cardiache”.
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