Il direttore scientifico del centro di Neuroscienze Milano-Bicocca : «Se la patologia è conclamata non si può intervenire. Con una diagnosi precoce, invece, è possibile ridurre i livelli della proteina che, accumulandosi, danneggia il cervello»
Avere vuoti di memoria, non ricordare dove sono le chiavi di casa, perdere la cognizione del tempo: non sono i sintomi di un normale invecchiamento. Questi segni, che sconvolgono la vita quotidiana di un individuo, possono indicare la comparsa di una forma di demenza.
Nel 2050, il progressivo invecchiamento della popolazione, porterà ad una triplicazione di queste patologie. Prima fra tutte la malattia di Alzhaimer che già oggi rappresenta il 70% di tutte le forme di demenza: «Attualmente – ha spiegato Carlo Ferrarese, direttore scientifico del centro di Neuroscienze di Milano all’università di Milano-Bicocca e direttore della clinica di Neurologia all’ospedale San Gerardo di Monza – in Italia sono circa un milione i pazienti con demenza, di cui 700 mila soffrono di Alzheimer».
Una patologia chiaramente riconoscibile: «I primi sintomi – ha aggiunto il neurologo – sono disturbi della memoria, soprattutto di quella che chiamiamo memoria recente, cioè legata agli avvenimenti appena accaduti. I pazienti chiedono più volte le stesse cose, non ricordano dove hanno messo gli oggetti, cominciano ad essere disorientati nel tempo. Di fronte a questi segni è necessario un approfondimento immediato: la diagnosi precoce – ha sottolineato Ferrarese – è fondamentale».
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Per l’ Alzheimer non c’è cura, ma riconoscere la malattia fin dal suo esordio permette di tenerla sottocontrollo: «Quando c’è una demenza conclamata – ha detto lo specialista – è già troppo tardi per intervenire. Le nostre speranze sono oggi racchiuse nella prevenzione e nella diagnosi precoce. Sono stati scoperti i meccanismi che causano il danneggiamento del cervello, ovvero l’accumulo di una proteina che può iniziare anche 20 anni prima della manifestazione clinica della malattia. Ed oggi, questa proteina, la beta amiloide, siamo in grado di dosarla sia nel cervello, facendo una Pet o nel liquido cerebrospinale con una puntura lombare. Quindi, conoscendone le alterazioni possiamo in qualche modo indirizzare il paziente a nuove sperimentazioni cliniche che – ha concluso Ferrarese – mirano proprio a ridurre i livelli di queste proteine, migliorando nettamente la qualità della sua vita».