Sanità Informazione è entrata nel laboratorio del Policlinico Campus Bio-Medico di Roma dove vengono analizzati i tessuti: la tecnologia consente precisione e velocità. Il coordinatore Roberto Virgili: «Il tecnico di laboratorio è sempre più un gestore di tecnologia oltre che di tecnica, mentre prima si basava su metodiche da banco. Figure professionali come biostatistici e i bioinformatici saranno quelle che affiancheranno medici e tecnici del prossimo futuro»
Non tutti i laboratori di diagnostica clinica sono uguali. Ce n’è uno dove i tessuti umani vengono analizzati fin nella sua più piccola unità, quella cellulare. Parliamo del laboratorio di Anatomia Patologica: un mondo sconosciuto ai non addetti ai lavori ma dove il mix tra competenze mediche e tecniche e nuove tecnologie risulta decisivo per la diagnosi di malattie gravi come i tumori. Sanità Informazione ha avuto accesso al laboratorio di Anatomia Patologica del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico dove ci hanno accolto microscopi e strumentazioni di ogni genere. Un tuffo nel futuro, dove però la mano dell’uomo resta insostituibile.
Il Campus Bio-Medico, una vera e propria “cittadella della salute” si trova ai ‘bordi di periferia’, appena fuori dal Grande Raccordo Anulare di Roma, a due passi dal quartier generale della Roma calcio a Trigoria. Ci accoglie Roberto Virgili, Coordinatore Tecnico del Laboratorio di Anatomia Patologica del Campus Bio-Medico.
«Il ruolo del tecnico di laboratorio – afferma Virgili – è cambiato velocemente negli ultimi anni. Nel laboratorio di anatomia patologica l’automazione è sempre stata una componente minore del processo perché la preparazione del vetrino da osservare al microscopio e la sua interpretazione per formulare la diagnosi sono processi manuali e cognitivi dove l’uomo risulta insostituibile. Ciononostante da tempo è avviata una forte evoluzione tecnologica nella parte di processo che può essere demandata agli strumenti. Sono infatti disponibili macchine che lavorano in modo autonomo anche overnight associate a sistemi di tracciabilità che garantiscono la corretta identificazione del paziente e di conseguenza la migliore sicurezza delle cure. Un forte contributo tecnologico viene infatti dai sistemi informatici che permettono di ottimizzare i percorsi, condividere immagini digitali tra centri diversi e scambiare dati in tempo reale con le cartelle cliniche riducendo i tempi dei percorsi cartacei. Se da una parte stiamo andando verso orizzonti futuristici come l’intelligenza artificiale per gestire percorsi e risultati, dall’altra parte si deve prendere atto che l’innovazione non può prescindere dalla formazione. È necessario quindi ampliare anche i percorsi formativi, andare verso una specializzazione del personale tecnico indirizzata ai diversi settori della laboratoristica in cui andrà ad operare e soprattutto fornirgli conoscenze di applicazioni informatiche inclusa una formazione di sanità digitale che in questo momento non è presente».
Ci muoviamo mentre i tecnici, presi dalle loro attività, quasi ignorano la nostra presenza. Il primo passaggio è quello dedicato ad una analisi lampo per casi urgenti in corso di intervento chirurgico: in una stanza, un tecnico ed un medico preparano il tessuto prelevato dal chirurgo, l’ambiente è sconsigliato a stomaci deboli. Davanti a noi un ‘criostato’. «Con questo strumento riusciamo a congelare rapidamente il tessuto e ad allestire delle sezioni da dare in lettura al patologo per fornire una risposta immediata alla sala operatoria dove si sta svolgendo l’intervento», ci spiega Virgili. L’esame viene richiesto dal chirurgo per modulare di conseguenza l’intervento operatorio ed i tempi sono strettissimi. «Lo strumento – continua Virgili – abbatte rapidamente la temperatura sotto i 20 gradi centigradi, il tessuto è immerso in una resina particolare che gli conferisce compattezza, poi viene sezionato, viene preparato il vetrino istologico e consegnato al patologo per l’interpretazione al microscopio. La risposta viene comunicata in sala operatoria al chirurgo che prosegue l’intervento in funzione della indicazioni del patologo. L’intero processo richiede di norma in 20 minuti». L’attività, come si intuisce, è particolarmente delicata e, sottolinea Virgili, «è molto importante la formazione del personale, l’utilizzo giusto dello strumento che dev’essere mantenuto costantemente efficiente e la preparazione sia del patologo che del tecnico di laboratorio».
La procedura diagnostica di routine invece la vediamo subito dopo. Entriamo in una stanza piena di macchinari dalle forme più diverse, strumentazioni che non fanno altro che processare il tessuto prelevato nel corso di interventi o in sede ambulatoriale e renderlo disponibile per essere sezionato e tagliato al microtomo (strumento per mezzo del quale vengono realizzate sezioni istologiche di campioni di tessuto). «Questo processo si chiama inclusione in paraffina – spiega Virgili – In pratica togliamo tutta l’acqua dal tessuto attraverso diverse stazioni di reagenti, con serie a scalare di alcol. Usiamo poi un mezzo di passaggio tra l’alcol e la paraffina ed infine immergiamo i tessuti in paraffina a temperatura di fusione. Il giorno dopo il tessuto è completamente impregnato di paraffina allo stato liquido. Abbiamo sostituito l’acqua con la paraffina e così il tessuto è idoneo per ottenere l’incluso finale quando la paraffina riportata a temperatura ambiente darà un blocchetto pronto per essere sezionato. Le inclusioni sono tutte contrassegnate con un barcode quindi una identificazione univoca del caso di appartenenza. Entriamo nella fase manuale del processo, qui il personale tecnico passa l’inclusione sotto un lettore ottico e viene stampato un vetrino su cui vengono raccolte le sezioni in paraffina ottenute dal blocchetto. I vetrini passano poi in colorazione per arrivare al vetrino istologico da analizzare».
Si tratta di una serie complessa di passaggi sequenziali dietro ai quali c’è un grande lavoro e competenze molto specifiche, che da un occhio esterno possono solo essere intuite.
Passiamo così a vedere ‘live’ il processo di taglio delle sezioni per la preparazione del vetrino istologico. Per garantire la tracciabilità del campione, l’inclusione in paraffina viene identificata con un lettore barcode che stamperà un vetrino su cui poi saranno applicate delle sezioni. La fase più delicata è quella del taglio delle sezioni istologiche dal blocchetto in paraffina: si lavora con spessori di pochi micron ed è una operazione che, come ribadito, resta ancora un processo rigorosamente manuale: «Questa operazione non può essere demandata a strumenti, almeno ad oggi, – sottolinea Virgili – quindi è molto importante la formazione del tecnico, ed è qui che fa la differenza la manualità del personale».
Ed è a questo punto che ci troviamo di fronte un macchinario imponente, che svolge un ruolo essenziale consentendo l’immunotipizzazione tumorale. Dopo una prima valutazione del patologo sul vetrino istologico colorato può essere necessario tipizzare il tumore per dare una diagnosi più accurata e sicuramente anche una terapia più mirata. «Questo strumento – spiega Virgili – è in grado di gestire 60 vetrini per volta, con caricamento in continuo, per la caratterizzazione immunoistochimica e può lavorare nelle 24 ore. Quindi potenzialmente può non fermarsi mai. Queste determinazioni prima erano effettuate a mano, adesso avvengono in alta automazione con minore impiego manuale del personale tecnico che è ovviamente un gestore della macchina».
La macchina ha i suoi sistemi di allarme nell’eventualità che qualcosa non sia stato correttamente eseguito. Nel giro di due-tre ore è in grado di produrre contemporaneamente reazioni immunoistochimiche di antigeni diversi. «Qui l’automazione – continua – è importante perché ormai questo tipo di richieste sono notevoli, purtroppo le patologie oncologiche sono aumentate e quindi anche le richieste di questa metodica che prima erano sporadiche ormai sono diventate di routine».
Un’altra stanza è invece il regno della biologia molecolare: anche qui macchinari di ogni genere concentrati in pochi metri quadri. «La biologia molecolare è entrata prepotentemente nel laboratorio di anatomia patologica con l’avvento delle target therapy e della medicina personalizzata quindi terapie sempre più mirate alla patologia e al paziente. Quindi l’anatomia patologica si è dovuta dotare di tecnologie, strumentazione ed expertise per andare ad analizzare mutazioni o amplificazioni geniche, delezioni e quant’altro per dare una risposta al clinico che possa seguire la terapia. Anche qui si è passati da metodiche e tecniche eseguite soprattutto manualmente a strumentazioni di ultima generazione con cui eseguire queste indagini in alta automazione, in alta affidabilità, in alta risoluzione».
A questo punto, parola all’anatomo patologo per la diagnosi. «Quando il vetrino è stato allestito, cioè quando il preparato istologico è pronto viene portato all’anatomo patologo che deve interpretare le caratteristiche morfologiche e sulla base di queste formulare una diagnosi – spiega Anna Crescenzi, Direttore Anatomia Patologica del Policlinico Campus Biomedico – Ci sono anni di studio e di conoscenza di tutte le possibili variabili che ci troviamo di fronte. Al microscopio andiamo a vedere l’architettura del tessuto, le modificazioni a carico delle cellule, eventuali infiltrazioni infiammatorie o trasformazioni neoplastiche come capita per le diagnosi oncologiche. Mettendo insieme tutte queste informazioni, siamo in grado nella maggior parte dei casi di formulare una diagnosi definitiva e quindi dare un’indicazione per il successivo percorso terapeutico del paziente. In alcuni casi la diagnosi è evidente ma per completezza dev’essere supportata da alcune ricerche, per esempio sull’origine del tumore che al momento del riscontro è sconosciuta. In questo caso ci avvaliamo di tecniche ancillari quali le colorazioni immunoistochimiche. In altri casi, in cui il tumore è inoperabile e necessita di chemioterapia mirata ad un’eventuale possibilità di ricondurre questo paziente a poter essere sottoposto a un intervento, facciamo anche le analisi molecolari che ci mostrano il profilo mutazionale di quella neoplasia al quale corrisponde in molti casi un farmaco specifico: è la terapia a bersaglio».
«Il ruolo del tecnico di laboratorio – conclude Virgili – è destinato a crescere, sarà sempre più gravato di responsabilità. Questa figura infatti si trasforma in un gestore di tecnologia oltre che di tecnica, mentre prima si basava su metodiche da banco. Sui banconi di laboratorio sono ora disponibili nuove strumentazioni ed il personale tecnico sanitario è ora chiamato ad essere anche un gestore di flussi di lavoro e di dati. Figure professionali come biostatistici e i bioinformatici saranno quelle che affiancheranno medici e tecnici del prossimo futuro».