Morgilli (psicologa dello sport): «In tutto sei esercizi da apprendere sotto la guida di un esperto, per poi allenarsi a casa tre volte al giorno per almeno tre mesi. Parzialmente controindicato a chi soffre di cuore, da evitare con pazienti schizofrenici».
Paura di potersi ammalare o di perdere persone care. Timori amplificati dalla pandemia da Covid-19 che hanno cambiato il modo di vivere delle persone in tutto il mondo e, non di rado, generato delle autentiche ansie. Ma uscire di casa, che sia per fare la spesa o per andare a lavoro, è quasi sempre inevitabile. «In situazioni di paura o di ansia – suggerisce Luana Morgilli, psicologa dello sport, psicoterapeuta e consigliere dell’ordine degli Psicologi del Lazio – il training autogeno può essere un ottimo alleato, un vero e proprio allenamento che ci permette di gestire alcune reazioni negative».
Dalla paura scaturiscono inconfondibili sintomi fisici: «Quando il battito cardiaco accelera e il respiro diventa più intenso – spiega Morgilli – è probabile che stiamo sperimentando una forma di ansia. Reazioni psicocorporee che possiamo imparare a gestire attraverso il training autogeno che, nel tempo, ci aiuterà ad acquisire una maggiore consapevolezza e padronanza delle nostre emozioni».
Ma come suggerisce lo stesso termine “training” per raggiungere dei risultati apprezzabili è necessario allenarsi con costanza per almeno tre mesi, tre volte al giorno. «Questa tecnica – commenta la psicoterapeuta – nasce all’inizio del ‘900 con l’obiettivo di permettere alle persone che la utilizzano di “aiutarsi da sole”. Una volta appresi i sei esercizi fondamentali, a cui di recente ne sono stati aggiunti altri integrativi, l’individuo potrà proseguire il suo allenamento in piena autonomia».
Gli esercizi vanno appresi uno per volta e sotto la guida di un esperto. Solo dopo aver acquisito la piena padronanza di un esercizio sarà possibile passare a praticare il successivo. L’allenamento deve essere quotidiano e sarà necessario appuntare le reazioni che ne scaturiscono su un diario personale. «Ogni esercizio si riferisce ad un diverso sistema corporeo: il primo – dice la psicologa dello sport – coinvolge l’apparato muscolare, il secondo è quello del calore e riguarda l’apparato circolatorio. E così via fino ad arrivare al cuore, al respiro ed alla gestione consapevole degli organi interni addominali. L’ultimo esercizio cosiddetto della “fronte fresca” coinvolge la testa e può essere utilizzato anche per problemi di emicrania ricorrente e mal di testa di tipo muscolo-tensivi».
Concluso il percorso di apprendimento e raggiunta la piena capacità di svolgere in autonomia gli esercizi sarà possibile anche servirsene al momento del bisogno. «L’allenamento non va mai abbandonato, ma una volta interiorizzato lo stato di calma attraverso un training costante possiamo richiamarlo ogni qual volta ci rendiamo conto che ci stiamo agitando, che battito cardiaco e respirazione stanno accelerando. Sarà sufficiente sedersi e dedicare qualche minuto a se stessi», assicura la psicoterapeuta.
Il training autogeno è generalmente consigliato alle persone che soffrono di ansia e di conseguenti disturbi psicosomatici, come gastrite e colon irritabile. È molto usato anche per la prevenzione del dolore: «Un particolare protocollo di training autogeno viene utilizzato per preparasi al parto o alle sedute dal dentista. Attraverso questa tecnica – commenta Morgilli – è possibile creare quasi uno stato alterato di coscienza che permette di percepire meno il dolore. Ci sono, poi, degli impieghi più innovativi. Nel mondo dello sport, per la preparazione ad una competizione o per accelerare il recupero delle energie. In ambito aziendale, per raggiungere uno stato di calma prima di una conferenza o di un discorso in pubblico».
Si dice che sia adatto a tutti, ma qualche piccola controindicazione c’è. «Le persone che hanno avuto infarti, ictus o gravi problemi cardiaci possono praticarlo solo dopo il consenso medico. È vietato, invece – conclude l’esperta -, a tutti quei soggetti in cui la percezione della realtà è alterata, come in pazienti schizofrenici o che soffrono di psicosi».
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