Nonostante i rischi (e i divieti) gli over 65 continuano ad affollare ambulatori e non solo. Il geriatra: «Fatalismo e scarsa informazione sono un mix esplosivo. Ma le occasioni di contagio ci sono anche per gli anziani più scrupolosi»
Fanno parte della categoria più fragile e a rischio ma non tutti riescono ad adeguarsi alle nuove norme previste dal dpcm del 9 marzo, che ha imposto forti restrizioni alla circolazione e all’aggregazione delle persone per arginare l’epidemia di Coronavirus. Parliamo degli anziani, gli over 65, che costituiscono una grande fetta della popolazione nel nostro Paese e che allo stato attuale fanno registrare la maggior parte dei decessi da Coronavirus. Certo, le persone che non rispettano le direttive sono tante e di tutte le età, senza particolari distinzioni, ma nel caso delle persone anziane il discorso si fa un po’ più delicato. Abbiamo chiesto al Vicepresidente Nazionale Sumai Gabriele Peperoni, specialista in Geriatra, di spiegarci come effettivamente gli anziani stiano vivendo questo periodo di emergenza.
Dottore, innanzitutto ci aiuti a capire quanto effettivamente probabilità di contagio e mortalità siano alte nella terza età.
«Nel paziente anziano le due cose si sovrappongono, perchè l’anziano è in linea di massima immunodepresso, con un sistema neuroendocrino che, come tutti gli organi, invecchia con l’avanzare dell’età. E’ un organismo insomma sempre meno in grado di contenere un’infezione, ed è il motivo per cui l’anziano è più esposto al contagio. Se a questo si somma una generica fragilità, delle cronicità e delle comorbilità, ecco che è anche più facile che il soggetto non riesca a superare la malattia, a reagire alle criticità della stessa come può fare un giovane».
Il fattore età, preso singolarmente, quanto incide sulla mortalità? E’ più a rischio un anziano sano o un giovane malato?
«La premessa necessaria da fare per rispondere a questa domanda è che l’invecchiamento in salute è un traguardo da raggiungere. Anche gli anziani che arrivano a 80 o 90 anni facendo anche attività sportiva, che sono attivi fisicamente e cerebralmente, possono sottendere a delle patologie più o meno importanti, come l’ipertensione, il diabete, una cardiopatia sclerotica, per cui accade che magari il loro sistema immunitario sia più attivo rispetto alla media dei coetanei. Tuttavia il problema del decadimento persiste, è fisiologico. Fare un paragone con un soggetto cinquantenne con delle patologie è complesso, ma sicuramente l’anziano ha un grande fattore di rischio in più connaturato all’età».
Qual è l’atteggiamento che sta riscontrando nei suoi pazienti rispetto all’emergenza Coronavirus?
«Sto riscontrando un atteggiamento abbastanza fatalista. I pazienti continuano a venire in ambulatorio nonostante tutte le raccomandazioni a non uscire di casa e ad evitare situazioni affollate e contatti promiscui. Si sono infatti rese necessarie cautele aggiuntive come contingentare l’accesso agli ambulatori, anche perchè l’85% dei pazienti degli ambulatori sono over 75enni. C’è sicuramente l’effetto onda dei prenotati di uno o due mesi fa quando l’epidemia non era scoppiata in Italia, ma in ogni caso o non c’è una sufficiente percezione di ciò che sta accadendo e dei rischi a cui l’anziano si espone, oppure c’è l’idea fatalista del potersela in qualche modo cavare».
C’è il rischio, paventato da più fronti e ormai sempre più probabile, che a causa del sovraffollamento delle terapie intensive ben presto si dovrà operare una selezione tra i malati e il criterio sarebbe l’aspettativa di vita, in base ai parametri vitali e all’età. I suoi pazienti come vivono quest’idea?
«Innanzitutto, è bene specificare che i criteri di accesso alla terapia intensiva non possono e non devono tener conto esclusivamente dell’età, ma dei parametri vitali, appunto, presenti al momento del ricovero. Ci si potrebbe trovare davanti un trentenne con una patologia importante o terminale e un sessantenne in ottima salute. E’ evidente che la “scelta” in questo caso non può essere fatta pesando solo il fattore anagrafico, ma esaminando il quadro clinico globale. Di certo, trovarsi nei panni dei colleghi rianimatori chiamati a prendere questo tipo di decisioni deve essere drammatico. Nella nostra società invecchiare è un successo, e non possiamo, in un momento difficile come questo, scaricare sugli anziani tutto il peso della situazione. Spesso poi si tende a ragionare in astratto, e non si tiene conto che questi anziani potrebbero essere i nostri genitori. I miei pazienti, quelli più informati, mi chiedono delucidazioni su questa faccenda, giustamente allarmati. Il problema è che poi, come le dicevo, continuano a uscire di casa. Vero è che un anziano sano è difficile da tenere chiuso in casa per tre settimane. E comunque, le occasioni di contagio ci sarebbero anche se si riuscisse in quest’impresa: non dimentichiamoci che molti di loro vivono con le badanti, che si muovono spesso con mezzi pubblici e potrebbero portare il virus in casa».
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