Salute 24 Ottobre 2024 18:46

Arsenico nell’acqua, l’esposizione prolungata aumenta il rischio di malattie cardiovascolari

I risultati dello studio offrono una prova "della necessità di standard normativi per la protezione della salute"
Arsenico nell’acqua, l’esposizione prolungata aumenta il rischio di malattie cardiovascolari

L’esposizione prolungata all’arsenico nell’acqua può aumentare le malattie cardiovascolari, anche a livelli di esposizione bassi. Lo indica un nuovo studio della Columbia University Mailman School of Public Health, il primo a descrivere le relazioni esposizione-risposta a concentrazioni inferiori all’attuale limite normativo in vigore in molti Paesi, tra cui Stati Uniti (10 µg per litro). L’arsenico è stato classificato dalla Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) come cancerogeno per l’uomo, per questo anche in Italia i limiti della sua presenza nell’acqua sono stati abbassati a 10 µg per litro e, secondo l’American Heart Association, ci sono prove che l’esposizione a valori elevati aumenti il rischio di malattie cardiovascolari.

Trent’anni di analisi delle acque

Partendo da qui, lo studio ha invece valutato gli effetti di  un’esposizione a lungo termine, ma a basse dosi, di arsenico provenienti da forniture di acqua potabile. Per farlo, i ricercatori della Columbia Mailman School hanno utilizzato i registri dell’assistenza sanitaria statale raccolti per la coorte del California Teachers Study. Il team ha raccolto dati sull’arsenico nell’acqua per tre decenni (1990-2020) e ha incluso 98.250 partecipanti, 6.119 casi di cardiopatia ischemica e 9.936 casi di malattie cardiovascolari.

Più rischio di ischemia coronarica

Lo studio ha rilevato che l’esposizione decennale all’arsenico era associata al rischio maggiore, in particolare di ischemia coronarica. Rispetto a un gruppo a bassa esposizione (sotto 1µg/L), il rischio di malattie cardiache è balzato al 20% tra coloro che rientravano in intervalli di esposizione da 5 e 10 µg/L ed è più che raddoppiato al 42% per coloro che erano esposti a livelli pari o superiori a 10 µg/L.  I risultati, pubblicati sulla rivista Environmental Health  Perspectives, offrono una prova “della necessità di standard normativi per la protezione della salute, sostenendo la necessità di riduzione del limite attuale per eliminare ulteriormente rischi significativi”, conclude la ricercatrice principale, Danielle Medgyesi.

 

 

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