Il fondatore del progetto Giuseppe Oreste Pozzi (psichiatra): «Il 25% degli ospiti dei centri residenziali e diurni possono tornare a vivere fuori dai circuiti della psichiatria e della neuropsichiatria». A maggio si svolge il Festival dell’Espressività presso la struttura dei chiostri quattrocenteschi della Società Umanitaria
Colori, quadri, sculture di carta pesta e musica, in ogni angolo si respira il profumo dell’arte in questi luoghi. Quella che un tempo era la sede storica della casa di Nazaret in via don Carlo Salerio 51 a Milano, da qualche mese è la casa di 80 adolescenti che popolano Artelier, un’organizzazione costituita da un’associazione di volontariato e una cooperativa sociale che gestisce cinque centri clinici, quattro accreditati dal sistema sociosanitario ed un quinto privato. A questa organizzazione si aggiunge un consultorio dove operano, oltre agli psicoterapeuti, anche psichiatri e neuropsichiatri. «I nostri ragazzi sono autistici o con psicosi gravi – spiega il fondatore del progetto, il professor Giuseppe Oreste Pozzi, psichiatra e psicoterapeuta – tanto che nel centro residenziale abbiamo anche l’accoglienza notturna, mentre invece gli altri centri sono diurni, uno opera dal lunedì al sabato dalle 9 alle 16 mentre gli altri lavorano al pomeriggio dalle 14 alle 18. E devo dire che questi secondi centri operano anche sul versante di un inserimento lavorativo protetto.
Quanto aiuta l’arte da un punto di vista psicologico e anche medico?
«L’arte è fondamentale, i nostri ragazzi arrivano tutti con un oggetto, ma il problema è che sono fossilizzati su quello. Uno di questi ad esempio era fossilizzato sulla meteorologia e quando l’abbiamo dimesso era diventato il regista dei telegiornali della nostra attività. Se c’è una fossilizzazione su un oggetto solo vuol dire che non vuole staccarsi, invece grazie all’arte, che offre una duttilità incredibile, si favorisce un recupero. Oggi per esempio usiamo i ritratti artistici, tanto è vero che andiamo in giro per i bar, per i locali pubblici di Milano con la mostra “Ritrattabili”. Questo è un modo per i ragazzi di rimettere in gioco la propria identità a partire dalla ricostruzione del proprio volto».
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Che percentuali di recupero hanno questi ragazzi?
«Il 25% degli ospiti dei centri residenziali e diurni possono tornare a vivere fuori dai circuiti della psichiatria e della neuropsichiatria. Oggi per esempio la nostra prima ospite con schizofrenia e rischio suicidario sta viaggiando per il mondo, ha comprato casa, ha un’attività impiegatizia, guida la macchina. Quindi lei paga con il suo lavoro e il suo stipendio le tasse e non siamo invece noi a dover pagare per tenerla in una struttura. Poi non tutti ci riescono, ma in linea di massima i tre centri diurni servono tantissimo per accogliere e per dimettere i ragazzi, trovando loro anche una collocazione lavorativa».
Quanto Milano vi aiuta in questo?
«Siamo appena arrivati, prima fuori città avevamo costruito una rete importante, ora stiamo incominciando a costruire i rapporti con il territorio e con le scuole. Con queste ultime stiamo portando avanti un progetto che si chiama “La voce dei forti”, con l’idea di dimostrare che è necessario ed opportuno valorizzare le differenze che hanno le persone. È un lavoro che approderà al Festival dell’Espressività che facciamo ogni anno a maggio presso la struttura dei chiostri quattrocenteschi della Società Umanitaria: dimostrare che lavorare insieme, magari da soli, ma non in solitudine, la paranoia personale, istituzionale, sociale e famigliare si abbassa. Quest’anno il tema riguarda i legami, perché nella vita di ogni individuo sono essenziali, senza incontri fortunati il desiderio non circola, la vita non circola e c’è un appiattimento totale».