La psicologa Morgilli (OdP Lazio): «Lo sport non è un medicinale che può essere prescritto. Attenzione alle attitudini individuali e al contesto, per intercettare fattori di rischio»
Sui benefici dell’attività sportiva, sulla sua centralità nell’ambito di uno stile di vita sano, nessuno ha mai osato porre dubbi. Ultimamente però, complici alcune dichiarazioni di parte politica che hanno suscitato non poco scalpore nell’opinione pubblica, lo sport sembrerebbe assurgere a panacea, capace di prevenire e di curare una serie di disturbi e condizioni patologiche che interessano specialmente i giovani, ma non solo.
Dai disturbi alimentari alle ludopatie, passando per il tabagismo e il bullismo, gli studi insegnano che è impossibile ricondurli tutti sotto un unico ombrello né attribuire loro connotati ambigui sul piano etico (le “devianze”, così definite dalla leader di Fratelli D’Italia, Giorgia Meloni), viceversa ad approcciarli con strategie multidisciplinari, che coinvolgano l’ambito clinico, sociale, relazionale. Che ruolo ha lo sport in tutto questo? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Luana Morgilli, Psicologa dello Sport e Consigliera dell’Ordine degli Psicologi del Lazio.
«Sicuramente lo sport influisce positivamente sulla nostra sfera fisica e psichica apportando una serie di benefici e vantaggi – afferma Morgilli – soprattutto nei giovani. Dagli aspetti relazionali, con la capacità di rapportarsi agli altri e fare squadra, agli aspetti legati all’autostima, legati ad un miglioramento progressivo nelle prestazioni. Ma anche la capacità di accettare la sconfitta, un fattore che nella società moderna riveste molta importanza, perché nello sport, come nella vita, si vince e si perde. Sono tutti aspetti che aiutano i ragazzi a crescere e a sviluppare in modo sano la propria psiche. Un ruolo essenziale in tutto questo – sottolinea – è però giocato dal vissuto personale, cui tutti coloro che ruotano intorno al mondo sportivo devono essere sensibili o sensibilizzati».
«Ci sono alcuni sport in cui l’attenzione sul peso corporeo è molto evidente – osserva Morgilli – ad esempio le discipline artistiche, dalla ginnastica alla danza, ma anche alcuni sport di combattimento, come il pugilato o il judo, in cui per rientrare in una determinata categoria di peso bisogna necessariamente rispondere a certi standard. Non pensiamo solo all’anoressia, ma anche alla bulimia, dove il provocarsi il vomito dopo l’abbuffata può non essere il solo meccanismo di compensazione messo in atto dal soggetto, ma può esserlo una sessione sfiancante di attività fisica o sportiva. Ecco perché è necessario – spiega – porre attenzione al contesto in cui si sviluppa l’attività sportiva e alle caratteristiche e al vissuto del soggetto che la pratica. Lo sport può essere una risorsa, se ben valorizzata all’interno di un contesto che sia educativo e che attenzioni tanti altri aspetti. Prendiamo ad esempio il fenomeno del bullismo – aggiunge la psicologa – che in teoria lo sport dovrebbe aiutare a prevenire perché insegna a fare squadra, ad essere parte di un gruppo. Tuttavia episodi di bullismo e nonnismo esistono all’interno delle società sportive. Semplificare è sempre un errore».
«La palestra – prosegue Morgilli – che non è ascrivibile ad attività sportiva in senso stretto in quanto manca del fattore competizione e degli aspetti legati al far parte di una federazione, può essere terreno fertile per lo sviluppo o l’esacerbarsi di disturbi quali anoressia o vigoressia (l’ossessione per la propria massa muscolare), soprattutto quest’ultima collegata esclusivamente all’immagine corporea. Qui è fondamentale essere attenti agli estremi soprattutto con i più giovani, formando e sensibilizzando il personale che lavora con i ragazzi, e questo vale dalle scuole, alle società sportive alle palestre. Attenzione, insomma, al quindicenne che si iscrive alla sala pesi piuttosto che a calcio».
«Lo sport non è qualcosa che può essere prescritto come un medicinale – spiega Morgilli – anche perché risente molto del fattore attitudinale. Attuare un orientamento sportivo per capire se e quale può essere la disciplina più adatta sia da un punto di vista fisico che psicoattitudinale, che tenga conto delle preferenze della persona è importante. Senza motivazione da parte di chi la pratica, qualsiasi attività sportiva non apporterà i benefici che si prefigge. Fare formazione e informazione, rispetto al campo dei DCA in particolare, è essenziale. Come OdP Lazio – aggiunge – è partito il progetto F.A.R.O. (Formare in tema dei disturbi Alimentari e creare una Rete di Orientamento all’intervento e alla prevenzione), volta a sensibilizzare sia gli insegnanti scolastici sia gli istruttori sportivi rispetto al tema dei DCA, per dare informazioni su come riconoscerli ed intercettarli precocemente, ed indirizzare correttamente situazioni che sembrano a rischio. Sarebbe – conclude la psicologa – auspicabile una presenza sempre più capillare di psicologi all’interno di questi contesti».
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