Il Direttore Scientifico della Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari: «La campagna vaccinale rappresenta un’occasione unica di prevenzione e cura anche per Epatite C e AIDS. Tra i detenuti molti pazienti sommersi»
Il numero di contagi nelle carceri italiane continua ad aumentare: l’ultimo focolaio è esploso a Rebibbia, dove i positivi al virus hanno superato le cento unità. Una situazione che, secondo la SIMSPe, la Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari, può essere arginata solo attraverso un’urgente campagna vaccinale. «Bisognerebbe cominciare dagli agenti penitenziari – suggerisce Sergio Babudieri, Direttore Scientifico SIMSPe – per poi vaccinare i detenuti fragili, per età e comorbilità, per concludere con tutti gli altri carcerati».
Secondo i dati del ministero della Giustizia, a gennaio 2021 i detenuti positivi al Covid-19 erano 624, gli agenti della polizia penitenziaria, tra il personale amministrativo e dirigenziale, 708. Statistiche successive, provenienti da diverse fonti, mostrano un trend in aumento con una maggiore concentrazione di casi negli istituti penitenziari di Lombardia, Lazio e Veneto, con altri focolai a Sulmona, Napoli, Palermo e Lanciano.
Una situazione completamente ribaltata rispetto alla prima ondata, quando i contagi nelle carceri sono stati quasi completamente nulli. «Durante il primo lockdown – racconta Babudieri – i casi di Covid-19 tra i detenuti si sono concentrati nel milanese e nelle zone dove sono sorti i principali focolai. Nella maggior parte dei casi, durante la scorsa primavera, gli istituti penitenziari sono riusciti a lasciare il virus aldilà delle sbarre. Con la seconda ondata, invece, la situazione si è completamente ribaltata: il Covid ha cominciato a circolare con grande velocità anche all’interno delle famiglie, esponendo tutta la popolazione a rischio contagio. Questo significa che tutti coloro che accedono nelle carceri dall’esterno – soprattutto agenti, personale sanitario, assistenti sociali – rappresentano potenziali veicoli di contagio. E una volta entrato in una comunità chiusa come quella carceraria, il virus si propaga con estrema facilità. Per questo motivo, chiediamo che gli agenti di polizia penitenziaria siano vaccinati con urgenza».
La salute di un detenuto non riguarda solo la sanità pubblica. «Se a contrarre il Covid-19 è un carcerato anziano, o affetto da una o più patologie, è molto probabile che necessiterà di un ricovero ospedaliero. Il trasferimento in ospedale e la successiva degenza – sottolinea il Direttore Scientifico SIMSPe – richiederanno l’impiego, oltre che di personale sanitario, anche di numerosi agenti. E se il numero di detenuti contagiati da ricoverare dovesse subire un’impennata, gli uomini in forza alla polizia penitenziaria potrebbero non essere sufficienti. Solo immunizzare i detenuti a rischio potrebbe evitare di mettere a dura prova due sistemi insiemi: da un lato quello sanitario, dall’altro quello penitenziario».
E perché dedicare una terza tranche di vaccinazioni anche a tutti gli altri detenuti, pur se giovani ed in salute? «Che oltre la metà dei carcerati abbia meno di 40 anni, percentuale che sale al 70% se si considerano gli stranieri (che rappresentano un terzo di tutti i detenuti), è un dato di fatto. Ma pur se in buona salute, nella maggior parte dei casi, provengono da contesti sociali di estrema fragilità. Per questo – specifica Babudieri -, vaccinarli in carcere potrebbe essere l’unica occasione che abbiamo a disposizione per farlo. Una volta tornati in libertà, la precarietà delle condizioni in cui spesso si trovano a vivere, potrebbe rendere molto difficile rintracciarli».
Non si tratterebbe di un lavoro particolarmente lungo e complesso. «Quest’anno, con la pandemia, il numero di arresti si è molto ridotto e, di conseguenza, anche il sovraffollamento è calato di diversi punti percentuali. Considerato ciò, i detenuti complessivi da vaccinare, tra giovani e anziani, sarebbero circa 55 mila. Lo stesso numero di vaccini – spiega il Direttore Scientifico SIMSPe – sarebbe necessario anche per gli agenti di polizia penitenziaria, di solito presenti in rapporto di 1 a 1 rispetto ai carcerati. Ed infine 4-5 mila dosi da destinare a medici e infermieri impiegati negli istituti penitenziari italiani. Per una stima totale, dunque, di circa 115 mila vaccini»
L’avvio della campagna vaccinale anti-Covd può diventare la base per una maggiore prevenzione anche su altri fronti. Contestualmente al vaccino, infatti, possono essere attuati screening per accertare la presenza di virus come HCV e HIV, causa rispettivamente di Epatite C e AIDS. «I detenuti rappresentano infatti una delle cosiddette “key populations”, ossia uno dei principali serbatoi di questi virus. L’individuazione del “sommerso” – commenta Babudieri – permetterebbe di intervenire tempestivamente e di arginare il diffondersi delle infezioni e delle loro devastanti conseguenze. Il carcere è un osservatorio privilegiato e questa opportunità – conclude – non va sprecata».
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