Il vicepresidente della Federazione degli Ordini ha coniato il termine per spiegare la fuga dei camici bianchi dalle corsie: «Sono sempre più i medici ospedalieri che, per il basso livello della qualità di vita e delle condizioni di lavoro, firmano anzitempo la risoluzione del rapporto di lavoro». Tra le cause anche blocco del turnover e giovani disincentivati
Una prova di resistenza, fisica e mentale. Un’amante esigente, che ti prosciuga tutte le energie, impedendoti di dedicarti appieno ad altre attività. È la vita di molti medici ospedalieri: soprattutto medici di Pronto soccorso e di medicina d’urgenza, internisti, anestesisti, specialisti in chirurgia generale. Ma anche infermieri e operatori sanitari, ovviamente. Una vita di reperibilità, urgenze e notti, che non conosce il significato della parola festivo né, troppo spesso, della parola riposo.
Lo sanno bene, gli ospedalieri, che cosa significa essere chiamati di notte per un’urgenza, a cui magari ne segue un’altra; tornare a casa alle 6 di mattina e poi, facendo finta di aver dormito, ripresentarsi in ospedale alle 8 ed affrontare un’altra giornata di Pronto soccorso, visite o sala operatoria. E si va avanti così, di anno in anno, trascurando inevitabilmente se stessi e i propri cari. Finché si arriva al limite e si prende la difficile decisione di cambiare vita, di lasciare quel posto per il quale si è lottato e sacrificato tanto. Si lascia l’ospedale.
Abbiamo intervistato Giovanni Leoni, vicepresidente della FNOMCeO e segretario di CIMO Veneto, che ha chiamato questa scelta “autodimissione”: «È un termine – spiega ai microfoni di Sanità Informazione – normalmente riferito ai pazienti quando rifiutano le cure e firmano la cartella clinica, ma ho coniato questo neologismo per illustrare la posizione dei medici che, visto il basso livello della qualità di vita e delle condizioni di lavoro, firmano anzitempo la risoluzione del rapporto di lavoro con l’ospedale».
In una lunga chiacchierata, il dottor Leoni ha raccontato cosa significa veramente lavorare in un ospedale. Significa esser costretti anche a due settimane di reperibilità consecutive (pagate un euro netto l’ora), che impediscono di andare in palestra, o al ristorante, o al cinema, e costringono a dormire con il cellulare acceso e un occhio aperto, in attesa di una possibile chiamata. Significa discutere con i colleghi per organizzare turni e ferie, perché c’è il battesimo del nipote, o la laurea dei figli, o un concerto atteso da anni, un compleanno o un anniversario.
Significa lavorare anche 48 ore di seguito, con la vita delle persone nelle proprie mani e la stanchezza che si accumula. Significa rendersi conto, ogni anno, che le energie inesorabilmente diminuiscono, e che avere 60 anni non è come averne 40. Significa aiutarsi a vicenda, perché quella dell’ospedale, alla fine, è una seconda famiglia, e ci sono solo i tuoi colleghi, con cui trascorri gran parte della tua vita, che possono tenderti una mano quando capiscono che quel limite lo hai già superato. E quando qualcuno si prende l’influenza, o si rompe una gamba, o rimane incinta (e in teoria dovrebbe capitar spesso, per fortuna, visto che il 60% dei medici under 35 è donna), quella torta di turni, sempre la stessa, deve essere divisa in meno fette. Più larghe, consistenti, pesanti. Faticose. E arriva il momento che non ce la fai più. Vivi per mesi nel dilemma tra andar via o restare per cercare di provare a cambiare qualcosa. Ma poi non cambia niente, anzi magari peggiora, e ti “autodimetti”.
Sono queste le conseguenze del blocco del turnover o del numero insufficiente di contratti per le scuole di specializzazione o il corso di formazione in medicina generale. Non sono solo le liste d’attesa più lunghe, i Pronto soccorso affollati o l’assenza di determinati specialisti in alcuni ospedali. Sono anche la qualità e la sicurezza delle cure che possono esserne condizionate. E lasciando l’ospedale non si fa che alimentare il problema della carenza di medici che già affligge le corsie dei nostri ospedali e che in parte è causa della vita frenetica ed estenuante condotta dagli ospedalieri. Un cane che si morde la coda. Un circolo vizioso da cui è difficile uscire.
Ma un modo per migliorare le condizioni di vita e di lavoro di chi, prima o poi, dovrà prendersi cura della salute di noi tutti forse c’è: «È una questione di impegno, di incentivazione, di risorse che devono essere investite per sbloccare il turnover generazionale – risponde Leoni -. È necessario che ci siano più specialisti e che si qualifichino più giovani, mettendo a loro disposizione più posti per le scuole di specializzazione ed il corso di formazione in medicina generale, consentendo a tutti i laureati in medicina di proseguire il loro percorso formativo».
«I giovani – prosegue il vicepresidente della Federazione degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri – arrivano alla professione con le più svariate motivazioni, prima tra tutte aiutare i pazienti. Poi, se vedono i più anziani che hanno condizioni di vita particolarmente pesanti, possono avere delle perplessità sul futuro che li attende. Trascorreranno la maggior parte della vita facendo quel lavoro, affrontando tutte queste difficoltà e facendo tutti questi sacrifici, ed è fondamentale che quel lavoro gli piaccia e li appassioni. Se l’assegnazione alla scuola di specializzazione, in base alla graduatoria, non corrisponde a quella desiderata, si otterrà un titolo non voluto o, magari, al secondo anno di corso si abbandonerà quella strada per tentare di inseguire altrove il proprio sogno e la propria passione. Se non si cambia qualcosa – conclude amaro Leoni – cercheranno sempre più all’estero quello che non trovano nel nostro Paese».