La piccola Beatrice Naso è morta a 8 anni, a Torino nel 2018, affetta da una patologia, unico caso al mondo, che trasformava cartilagini in osso. Ora, uno studio internazionale, guidato dall’università di Pavia e pubblicato su “Nature Communication” ne rivela il gene responsabile, ARHGAP36, che produce una proteina in quantità molto più elevate dell’atteso, ma soprattutto nel tessuto sbagliato, la cartilagine
Identificata la causa della malattia genetica rarissima che colpì la piccola Beatrice Naso, morta a 8 anni, a febbraio 2018, a causa di una malattia che non aveva neanche un nome e che trasformava la cartilagine in osso, rendendo progressivamente impossibili i movimenti, al punto che il suo corpo era diventata un’armatura. Ora il mistero di quella malattia, per la quale la stampa parlò della “bimba di pietra”, unico caso al mondo, è svelato grazie a uno studio internazionale, guidato dall’università di Pavia e pubblicato su “Nature Communication”, che ha identificato la causa della sindrome in un’anomalia cromosomica unica: il gene ARHGAP36 produce una proteina in quantità molto più elevate dell’atteso, ma soprattutto nel tessuto sbagliato, la cartilagine. Proprio questo gene induce la formazione di tessuto osseo dove non dovrebbe essere presente.
Nel 2010 Bea viene visitata all’ospedale infantile Regina Margherita della Città della Salute di Torino perché presenta tumefazioni alle articolazioni. Le radiografie e la Tac rilevano rapidamente una situazione molto particolare, una serie di “calcificazioni” che stanno trasformando la cartilagine in osso. E ben presto le articolazioni si bloccano rendendo impossibili i movimenti di braccia e gambe. Gli esami radiologici mostrano un quadro sempre più grave e sono sconcertanti anche per i medici più esperti: nessuno specialista ha mai visto un caso come quello di Bea in tutto il mondo. La famiglia crea una onlus, si adopera per far conoscere il caso e la zia pubblica “#Leggera come una piuma – Il Mondo di Bea” (Pathos edizioni) per far conoscere la malattia. I mezzi di comunicazione si interessano al caso e Bea viene conosciuta da molte persone che accompagnano la famiglia nel lungo percorso di malattia della bambina.
Dopo 13 anni e centinaia di esperimenti, un gruppo internazionale di ricercatori, coordinati da Elisa Giorgio, ricercatrice dell’università di Pavia e di Fondazione Mondino Irccs, è riuscito a identificare la causa della malattia di Bea, chiarendo come questa sia una patologia genetica non solo rarissima, ma semplicemente unica. La ricerca è iniziata attraverso la collaborazione tra i pediatri che hanno inizialmente approfondito il quadro clinico, il laboratorio di Genetica medica e malattie rare della Città della Salute di Torino e il Dipartimento di Scienze mediche dell’università di Torino. Per capire il complesso meccanismo alla base della malattia è stata necessaria una collaborazione con diversi centri italiani ed esteri: ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, università di Verona, università di Lubecca e Kiel, in Germania. Inizialmente erano state approfondite le cause note di malattie genetiche associate alle calcificazioni ectopiche. La malattia di Bea aveva molte similitudini con la fibrodisplasia ossificante progressiva (Fop), ma si era presentata nelle prime settimane di vita con un’evoluzione molto rapida e invalidante e le analisi genetiche avevano da subito escluso questa malattia.
Nel frattempo il gruppo di ricerca aveva identificato un’anomalia cromosomica unica, mai descritta in letteratura, caratterizzata dalla presenza di un segmento del cromosoma 2 doppio, inserito sul cromosoma X della bambina. Questa anomalia dei cromosomi, ovvero l’inserzione di una regione di un cromosoma su un altro, può portare a un’espressione genica alterata. L’attività di ricerca ha permesso di capire che il pezzo di cromosoma 2 in più conteneva delle regioni in grado di attivare i geni sul cromosoma X nei tessuti sbagliati. In particolare, si è dimostrato che il gene ARHGAP36 produce una proteina in quantità molto più elevate dell’atteso, ma soprattutto nel tessuto sbagliato, la cartilagine. Proprio questo gene induce la formazione di tessuto osseo dove non dovrebbe essere presente.
«La ricerca ha bisogno di tempo e si costruisce sulle conoscenze che a mano a mano gli scienziati accumulano. Nel 2010 non avevamo i mezzi tecnologici né le conoscenze di base per capire la malattia di Bea», commenta Elisa Giorgio. Studiando le malattie rare come quella di Bea, gli scienziati possono trovare percorsi e meccanismi che potrebbero essere coinvolti anche in malattie più comuni. Lo studio identifica un gene ARHGAP36 come implicato nella formazione ossea, un’informazione del tutto sconosciuta fino ad ora. E studiando questo gene e la sua funzione è possibile che capiremo meglio le malattie ossee nella popolazione generale. Al momento è troppo presto per pensare a un utilizzo pratico della ricerca condotta, ma gli studiosi coinvolti sono entusiasti di aver contribuito a risolvere uno dei casi più misteriosi di malattia rara.
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