Una sensazione di confusione e “testa vuota”: è la brain fog che perseguita alcuni guariti affetti da sindrome long Covid. Con il prof. Padovani, direttore della clinica neurologica di Brescia, analizziamo casi precedenti e terapie
Quando dopo qualche settimana, per alcuni anche un mese, finalmente arriva la negatività al tampone da Covid-19 il paziente torna a vivere. La maggior parte recupera completamente nel giro di poco, mentre una percentuale che oscilla tra 5 e 10% affronta il long Covid. Una diffusa sensazione di stanchezza, affanno respiratorio, parosmia sono alcuni dei sintomi. A cui si unisce, in alcuni casi, quella che gli scienziati hanno ribattezzato “brain fog”, nebbia cerebrale.
Testa “vuota”, sensazione di confusione e smarrimento, difficoltà a concentrarsi. Così la descrivono i pazienti, ma per gli esperti non è un fenomeno nuovo. Sanità Informazione ne ha parlato con il prof. Alessandro Padovani, direttore della Clinica neurologica di Brescia e membro della Società italiana di Neurologia.
«Di brain fog si parla per infezioni virali, come Covid e influenza – ci spiega – ma è legata anche a patologie infiammatorie o di pertinenza psichiatrica. Il termine comprende varie sensazioni riferite dai pazienti e un’unica manifestazione è difficile da etichettare. La presentano molto frequentemente sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica e morbo di Parkinson. A volte è l’effetto collaterale di alcuni farmaci. È una diffusa sensazione di spaesamento molto complessa da arginare».
Dai primi dati accumulati in questi 18 mesi di pandemia, sembra che la brain fog si presenti nel 10-15% dei guariti da Covid, in percentuale simile tra curati a domicilio e ospedalizzati meno gravi. Per i pazienti che sono stati in terapia intensiva, invece, aumenta al 30-35%. Questo nonostante l’estrema diversità tra le caratteristiche dei singoli: i primi giovani e meno fragili, i secondi più anziani e con comorbidità. «Difficile comprendere come questo fenomeno sia sganciato dalla gravità di Covid, si ritiene che i meccanismi sottesi siano più di pertinenza psichiatrica o psicologica nelle persone giovani per via dell’ansia, negli anziani più legato a un processo organico» spiega Padovani.
Su cure e terapie si brancola ancora nel buio. Il professore ricorda una serie di approcci farmacologici fallimentari nel curare la brain fog nella sclerosi multipla ed altri, più convincenti, che univano alla riabilitazione anche l’azione di farmaci antidepressivi. «Abbiamo creato dei laboratori long Covid a cui ricorrono le persone con questo disturbo. Non ci sono percorsi terapeutici standard o linee guida. Nemmeno l’OMS ha riferimenti chiari, pur riconoscendo la patologia. Per le persone ospedalizzate sarebbe opportuno attivare percorsi di presa in carico fino alla riabilitazione, ma temo che questo non sia avvenuto. Nemmeno qui a Brescia nonostante i tentativi, e i pazienti sono stati abbandonati a sé stessi. A volte risorse e priorità non pongono le condizioni per rispondere a qualsiasi istanza», prosegue l’esperto.
Quel che finora sappiamo del disturbo da long Covid è che le sue manifestazioni sembrano temporanee, alcune più di altre. «Anche la brain fog è temporanea, ma non così facile da risolvere» concorda Padovani. La strada che alcuni stanno percorrendo sull’origine del disturbo è quella di una possibile reazione immunitaria del corpo che mantiene attivo il processo. «Ci sono casi di encefalomieliti post-influenzali, molto difficili da identificare e ancora di più da trattare». La letteratura scientifica, tuttavia, non propone molti elementi a favore, ricorda il professore.
«Ciò che è importante – conclude – e parlo soprattutto ai miei colleghi, è ascoltare queste persone. Non dobbiamo banalizzare le loro sofferenze e le loro ansie, ma cercare di comprenderle e dedicare l’attenzione che meritano. Non stiamo dando risposte adeguate, perché ancora non ci sono, dobbiamo quindi ascoltare».
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