Entrata ufficialmente tra le sindromi riconosciute dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, lo stress da lavoro-correlato colpisce anche medici e infermieri vittime delle aggressioni di pazienti e familiari
Operatori sanitari a rischio burnout, il disturbo da stress per “troppo lavoro” può colpire quei lavoratori del mondo ospedaliero soggetti ad aggressioni verbali e fisiche. «La violenza è sempre un trauma», ci spiega la psicoterapeuta Marina Cannavò, responsabile scientifica del corso “Prevenzione e gestione degli atti di violenza nei confronti degli operatori sanitari”. Il ciclo di lezioni, voluto dal Direttore Generale dell’ASL Roma 2 Dott.ssa Flori De Grassi e realizzato con la collaborazione del Direttore della formazione aziendale Dott.ssa Sabrina Santi, è alla sua seconda edizione e si prefigge l’obiettivo di formare l’operatore sanitario nel riconoscimento precoce e nella corretta gestione degli episodi di violenza.
«La violenza è un fenomeno ampio e complesso, – ci spiega la Dr.ssa Marina Cannavò, psichiatra e psicoterapeuta – quindi si vuole dare un’informazione il più possibile completa e soprattutto si vogliono dare le novità sul fenomeno e cioè che il rischio di violenza è causa di stress, addirittura è predittore di stress lavoro – correlato e di disturbi psichiatrici come appunto il burnout, ma anche di disturbi d’ansia e di disturbi depressivi dell’umore, perché la violenza è sempre un trauma. Anche nelle situazioni di episodi di violenza non fisici, come ad esempio i maltrattamenti verbali, che sono la forma più diffusa di violenza psicologica, si ha un trauma sui lavoratori. Ci sono conseguenze a breve termine come il disturbo post traumatico da stress e conseguenze a medio e lungo termine che ancora non conosciamo completamente, soprattutto nei confronti di quei lavoratori che subiscono più episodi di aggressione da parte di pazienti, familiari e accompagnatori».
IL CORSO PER AFFRONTARE IL BURNOUT
Nello studio condotto dalla dottoressa Cannavò su oltre 300 operatori del Dipartimento di emergenza e accettazione del Policlinico Umberto I nel 2017, almeno il 10% ha presentato disturbi legati alla presenza di burnout, mentre il 93% ha avuto conseguenze di vario tipo in seguito ad episodi di aggressione. «La violenza non può e non deve essere considerata soltanto una questione di sicurezza, perché se è vero che spesso gli ospedali sono diventati delle trincee e vigilanti e posti di polizia sono un deterrente, sicuramente però non risolvono il problema. Mi riferisco alle importanti conseguenze che la violenza crea sul benessere e sulla salute degli operatori sanitari». «Bisogna occuparsi dei disturbi emotivi. Addirittura, – prosegue la dottoressa – la rabbia è considerata ormai un’emozione tipica di tutte le professioni sanitarie. La rabbia degli operatori si va a scontrare con le frustrazioni dei pazienti e dei familiari che non trovano risposte alle loro aspettative relative all’assistenza e alla cura, all’organizzazione e anche agli ambienti ospedalieri e territoriali».
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Come gestire allora questi episodi? «Ritengo che l’intervento debba essere multidimensionale e che non bisogna agire solo nel post aggressione, ma bisogna intervenire sulla prevenzione dello stress. Se è vero che la violenza è il fattore di rischio più importante che genera stress lavoro-correlato, e questo è stato affermato anche da studi internazionali, allora prevenire la violenza significa prevenire lo stress dei lavoratori. Prevenire lo stress, significa decidere di intervenire sulla percezione di malessere del lavoratore, cioè quando l’operatore inizia ad avvertire i primi segnali di sovraccarico legati a varie problematiche lavorative. Intervenire con il trattamento e la cura soltanto dopo, quando l’operatore sanitario ha già problematiche mediche, psicologiche e psichiatriche importanti, significa agire su una malattia già conclamata e quindi ad alto rischio di cronicizzazione. A quel punto, potrebbe diventare difficile anche il reinserimento del lavoratore nel servizio dove opera. Considerato che il rischio di violenza non è contemplato nel Decreto 81 del 2008, il Testo Unico per la Salute e la Sicurezza dei lavoratori e lo stress lavoro-correlato non viene valutato ai primi segnali di disagio, chi valuterà l’idoneità del lavoratore?».
Manca la cultura della prevenzione. «Si deve intervenire sulla persona, ma anche a livello della struttura e dell’organizzazione. L’obiettivo deve essere migliorare il benessere e la salute dei lavoratori e a mio avviso l’intervento più importante rimane sulla persona. La formazione è fondamentale, ma dovrebbe essere una formazione obbligatoria e nazionale.»
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Quali le soluzioni possibili? «Io inserirei un codice nei pronto soccorso degli ospedali, come ad esempio hanno fatto in Australia, per identificare i pazienti agitati e difficili, a rischio di diventare aggressivi e violenti in pochi secondi. Ma gli interventi e le possibili soluzioni sono veramente tanti. Al riguardo, ho anche presentato alla Camera una proposta di legge sul fenomeno. Quello che insegno nei corsi di formazione che organizzo è che la gestione degli episodi di violenza con le tecniche di De-escalation è sì importante, ma è fondamentale soprattutto riconoscere i segnali premonitori della violenza. Infatti molto spesso gli operatori sanitari rimangono stupiti e per questo si bloccano e non sanno come reagire, un po’ perché vengono colti di sorpresa e un po’ perché sono impauriti dall’aggressore. Quindi la prima cosa è avere sempre in testa che si potrebbe essere aggrediti. Poi bisognerebbe addestrare gli operatori sanitari alla comunicazione efficace e al riconoscimento e gestione innanzitutto delle emozioni proprie e poi di quelle delle altre persone. Perché se gli operatori in primis non riconoscono la loro rabbia, non possono certo riconoscere quelle di chi hanno di fronte. Bisogna saper riconoscere in particolare, le micro-espressioni della rabbia; mi riferisco per esempio alla rabbia controllata e alla rabbia dissimulata. Nel corso insegno anche a gestire la rabbia dell’operatore. Se un lavoratore è arrabbiato e non sa di esserlo, rischia di dare risposte sbagliate, che possono aumentare l’aggressività del paziente e/o del familiare. Se non si riesce a gestire la propria rabbia, non si riuscirà ad intervenire su quella degli altri». Il consiglio agli operatori sotto stress: «Prendere coscienza delle proprie emozioni, del proprio malessere e non avere vergogna di chiedere aiuto, se necessario».