Al San Antonio Breast Cancer Symposium 2020 presentati i risultati dello studio di fase II DESTINY-Breast01 sull’utilizzo del Trastuzumab deruxtecan, l’anticorpo monoclonale coniugato anti-HER2 di Daiichi Sankyo e AstraZeneca. «Ha dimostrato di indurre una regressione misurabile di malattia nella maggioranza delle pazienti trattate che avevano ricevuto mediamente sei linee di terapie precedenti» spiega il Professore di Oncologia all’Università di Padova
Gli anticorpi monoclonali, di cui si parla molto in questi mesi come speranza per sconfiggere il Covid, potrebbero rappresentare una svolta anche per un particolare tipo di cancro alla mammella metastatico: quello detto “HER2-positivo” purtroppo tra i più aggressivi. Ne abbiamo parlato con il professor Pierfranco Conte, Professore di Oncologia Medica e Direttore della Scuola di Specializzazione in Oncologia Medica a Padova, tra i protagonisti del San Antonio Breast Cancer Symposium 2020 che quest’anno, causa Covid-19, si è svolto in modalità telematica. Proprio nel simposio sono stati presentati i risultati aggiornati dello studio di fase II DESTINY-Breast01 sull’utilizzo del Trastuzumab deruxtecan, l’anticorpo monoclonale coniugato anti-HER2 di Daiichi Sankyo e AstraZeneca.
«Questo tumore è un sottotipo di tumore mammario, rappresenta circa il 15% di tutti i tumori mammari di cui è stata messa in evidenza l’alterazione di un gene che si chiama HER2 – spiega Conte -. Questo gene è presente più volte: non c’è solo una coppia di questo gene sul cromosoma ma ci sono più coppie. A causa di questa presenza vengono prodotti molti più recettori di membrana che sono come delle antenne sulla membrana della cellula che raccolgono i segnali. Essendoci molte più antenne, queste cellule raccolgono molti più segnali e si dividono molto più rapidamente. Per questo sono più aggressivi rispetto ad altri tipi di tumore».
Purtroppo, questo tipo di cancro non è poi così raro. Si stima che in Europa ci sono 80mila nuovi casi ogni anno e in Italia circa 8-9mila casi all’anno. I farmaci anti HER2 hanno sicuramente cambiato la storia di questa malattia: «Oggi per fortuna la grande maggioranza di queste donne guarisce, la malattia non si ripresenta più – continua Conte -. Purtroppo, c’è ancora una quota di pazienti che o all’inizio ha già metastasi o nonostante queste terapie successivamente sviluppa metastasi. In tutti i casi queste terapie riescono a prolungare significativamente la sopravvivenza: quasi 4 malati su 10 sono vivi a oltre 8 anni dall’inizio dei trattamenti. Sono studi relativamente recenti, ancora non sappiamo fino a quando si può prolungare la sopravvivenza con questi nuovi farmaci».
Ora però la speranza è tutta riposta negli Antibody-drug conjugates che, con precisione chirurgica, possono contribuire a una ulteriore svolta soprattutto per quelle pazienti che hanno già provato altre linee di trattamenti. Ecco come agisce quello anti HER2: «È un anticorpo specifico perché riconosce una specifica caratteristica della cellula tumorale – continua il professore Conte -. A questo anticorpo viene legato un chemioterapico potentissimo, talmente potente che sarebbe difficile usarlo da solo. Questo anticorpo funge da postino portando il chemioterapico potentissimo direttamente sulla cellula tumorale. La cellula tumorale si lega con l’anticorpo, viene a contatto dell’antitumorale e viene uccisa. Questa tecnologia è importante perché lega molte molecole di chemioterapico con l’anticorpo: questo fa sì che non venga colpita solo la singola cellula tumorale ma anche quelle vicine. Quindi se vi fossero cellule tumorali con minori recettori HER2 anche queste possono essere uccise perché sono vicine a quella che sarà colpita da questo ‘postino di morte’».
I dati della sperimentazione sul farmaco Trastuzumab deruxtecan, sono molto promettenti e l’aggiornamento presentato al SABCS sembra confermare questa tendenza. «Ha dimostrato di indurre una regressione misurabile di malattia nella maggioranza delle pazienti trattate che avevano ricevuto mediamente sei linee di terapie precedenti – spiega Pierfranco Conte -. L’efficacia di questo farmaco sarà ancora maggiore quando usato precocemente. Il dato più interessante è che c’è stata una durata di sopravvivenza libera da progressione di malattia analoga a quella ottenibile ai trattamenti di prima linea. Vi era un gruppo di pazienti che aveva metastasi al cervello e anche questi pazienti sia in termini di risposta che di durata della risposta hanno avuto un beneficio analogo agli altri pazienti che non avevano metastasi cerebrali».
Infine, la tollerabilità, che nel complesso si è dimostrata abbastanza buona, anche se in alcuni casi si è manifestato il rischio polmonite: «Questo è un singolo farmaco con un’unica somministrazione endovenosa da ripetere ogni tre settimane. Dal punto di vista soggettivo è generalmente ben tollerato, l’unica tossicità a cui prestare attenzione è lo sviluppo di una polmonite non infettiva: è abbastanza rara ma bisogna prestare attenzione perché con la pandemia Covid non è sempre facile distinguere quanto è dovuto a una infezione magari da Covid o un effetto secondario del trattamento – precisa l’Ordinario di Oncologia -. È importante in questi casi che i pazienti siano consapevoli di questa tossicità: al primo sospetto clinico (tosse, respiro corto, ecc.) bisogna fare subito delle radiografie o una tac del polmone. Qualora ci sia una tossicità nella maggioranza dei casi è di grado 1, lieve, quindi bastano dei cortisonici e un antinfiammatorio per farla regredire e poi riprendere un trattamento. Molto importante avere una diagnosi tempestiva: se questa tossicità non viene riconosciuta e il trattamento prosegue si rischia di avere problemi di polmonite non infettiva severa».
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