«Manca regolamentazione specifica. Problemi con approvvigionamento e distribuzione. Spesso le farmacie che vendono questi prodotti ci vanno a perdere». Intervista alla neuroscienziata Viola Brugnatelli
«La cannabis light non crea dipendenza. Quella può esistere, a livello psicologico, nei consumatori creativi, non in quelli che fanno uso di cannabis con basse quantità di THC». Da non confondere, però, con la cannabis terapeutica che, al momento, pure non vive un bel momento: «I medici sono poco formati sull’argomento. Di conseguenza, anche i pazienti hanno difficoltà a capire a chi rivolgersi…». All’indomani della bocciatura al Senato della norma che modificava la tabella del testo unico delle leggi sugli stupefacenti e le sostanze psicotrope (e che riguardava proprio la cannabis cosiddetta “light”, ovvero con percentuali di THC talmente bassi da non avere effetto psicotropo), abbiamo parlato con la neuroscienziata Viola Brugnatelli, CEO e Direttrice del Comitato Scientifico di Cannabiscienza, oltre che ricercatrice presso l’Università di Padova.
Forse definirla “light” può fuorviare un po’. Sembra quasi che l’effetto del THC, ovvero del principio attivo che genera lo stato di “sballo” in chi fa uso di cannabis, sia ridotto. Invece è inesistente…
«Definire “light” quel tipo di cannabis non è altro che una strategia di marketing, che tra l’altro ha avuto successo: il nome ha subito preso. L’effetto psicotropo è inesistente e, a differenza della cannabis con alte dosi di THC, non crea dipendenza psicologica. Quella è riscontrabile solo nei consumatori ricreativi. In ogni caso, sconsiglierei l’utilizzo di cannabis light, in quanto non regolata da un ente di controllo per consumo umano. Motivo per cui risulta impossibile risalire alla qualità del prodotto».
La cannabis light ha però alte dosi di CBD, ovvero Cannabidiolo, un principio attivo che ha caratteristiche molto diverse dal THC. Ad esempio, in tanti la usano per combattere dolori fisici, insonnia…
«Anche io ho sentito di persone che usano il CBD per combattere l’insonnia, ma si tratta di una molecola che ha effetti molto diversi a seconda del dosaggio. A piccoli dosaggi, il Cannabidiolo ha effetto eccitante, e quindi non è consigliato per combattere l’insonnia. Caso diverso quando lo si usa in casi di tipo psichiatrico o nei pazienti di Parkinson. Lì effettivamente, ad alti dosaggi, aiuta a dormire. Però qui parliamo del principio attivo in generale. Per dire, viene usato per bambini affetti da epilessia o autismo. il CBD che si trova nella cannabis light non risulta attualmente eleggibile come farmaco. Il problema nasce quando il principio si trova in una pianta che viene coltivata a condizioni ogni volta diverse, potenzialmente non adatte al destino medicinale. E’ difficile dire che effetto possa avere».
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Cosa manca al settore?
«Manca una regolamentazione specifica. Ciò significa che ogni azienda agricola decide autonomamente come gestire la preparazione, la coltivazione e quant’altro. Di sicuro queste aziende non sono tenute a seguire gli standard obbligatori che invece ci sono per la cannabis medicinale. Non è mai arrivata la richiesta per garantire qualità per i consumatori, probabilmente anche a causa della tipologia merceologica della cannabis light, venduta come “prodotto tecnico”».
Parlando invece di cannabis terapeutica, a che punto stiamo? Quali sono i problemi che vanno superati per avere una corretta e sufficiente diffusione di questo tipo di farmaci su tutto il territorio nazionale?
«I problemi sono tanti. Innanzitutto, i medici italiani non ricevono un’adeguata formazione su questo tipo di prodotto e sugli effetti del medicinale sul corpo umano. La situazione peggiora quando parliamo di medici di una certa età. Di conseguenza, anche i pazienti sono poco informati e non sanno bene a chi rivolgersi per risolvere le loro esigenze. E anche se trovano un medico che è disposto a supportarli in questa terapia, può capitare che questi non abbia ricevuto la formazione necessaria e che quindi prescriva la terapia e somministri farmaci di questo tipo in maniera piuttosto inconsapevole, con conseguenti problemi non solo per i possibili effetti collaterali, ma anche per l’eventuale inefficacia della via di somministrazione indicata, che magari non è la più indicata per quella specifica patologia. Un grande spreco di tempo e di denaro. Altro grande problema: l’approvvigionamento. Ad oggi abbiamo tre vie di rifornimento: Olanda, Canada e Italia. L’unica che va direttamente nelle farmacie è quella olandese tramite dei distributori. Invece sia Canada che Italia devono passare ed essere approvati di volta in volta dal Ministero della Difesa, e poi la distribuzione è fatta dall’istituto farmaceutico militare alle farmacie».
A proposito di farmacie, come funziona la distribuzione?
«I costi della cannabis per il farmacista sono molto vicini al prezzo finale. Per questo può capitare che un farmacista, alla fine, ci vada a perdere quando vende questi prodotti. Anche per questo non sono tante le farmacie che erogano questo tipo di farmaci. Altre lo fanno ma non hanno abbastanza pazienti. A volte capita anche che i pazienti hanno bisogno di farmaci con un determinato fitocomplesso (proporzione di diversi principi attivi), si recano in una farmacia che vende questo tipo di prodotto ma non trovano quello che gli serve. Insomma, non c’è una comprensione reale dei principi attivi oltre al THC».
Cosa pensa di quanto accaduto al Senato?
«Non mi sono piaciuti i discorsi fatti in questi giorni. Ma, al di là di tutto, secondo me il problema non è nelle percentuali di principio attivo. Non dobbiamo puntare su quello. Il punto è che nessuna pianta di cannabis produce THC. Quelli che vengono prodotti sono cannabinoidi acidi che portano al THC solo dopo che vengono riscaldati. Ciò che dunque andrebbe richiesto è una definizione di protocollo di analisi. Se io analizzo un’infiorescenza a freddo avrò determinati livelli di THC. Se invece misuro la stessa infiorescenza con un gas cromatografo ad alta temperatura otterrò dei livelli molto diversi. Ciò di cui abbiamo bisogno è definire un protocollo di analisi, altrimenti non stiamo discutendo di niente. Il THC è un artefatto principalmente umano: la pianta ha in sé molecole neutre che cambiano quando vengono riscaldate. Prima di mettere standard, limiti, ecc. dobbiamo decidere quale macchinario usare per misurare il tutto e con quale procedura».