Il coordinatore dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione degli adulti: «La pena non è privazione della cura. Implementare la telemedicina ridimensionerebbe anche l’impiego di risorse umane ed economiche»
«Quattro detenuti su dieci assumono psicofarmaci. Venti su cento sono tossicodipendenti. In entrambi i casi sarebbe necessario un sostegno psicologico. Eppure, ogni cento detenuti sono garantite solo otto ore a settimana di supporto psichiatrico». A denunciare la carenza di assistenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari è Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione degli adulti dell’Associazione Antigone. «Carenze che – aggiunge l’esperto – potrebbero essere colmate attraverso l’utilizzo della telemedicina».
Non solo teleconsulti, ma anche televisite per colmare l’evidente carenza di medici di medicina generale e altri specialisti (non solo psichiatri). «Dopo uno stop imposto dalle restrizioni per la gestione della pandemia da Covid-19 – dice Scandurra – nel settembre del 2020 abbiamo ricominciato le nostre consuete “visite” per evidenziare le principali criticità presenti nelle carceri italiane. In poco più di un anno siamo riusciti ad effettuare controlli in 85 istituti penitenziari: solo nel 21% dei casi è garantita la presenza di un medico 24 ore su 24 e nel 14% delle carceri non c’è un protocollo per la prevenzione dei suicidi. Ed è proprio in questi contesti che l’introduzione della telemedicina potrebbe sopperire, almeno in parte, alle carenze in termini di assistenza sanitaria».
Sostituire le visite in presenza, laddove possibile e a seconda delle patologie, con le televisite ridimensionerebbe anche l’impiego di risorse umane ed economiche necessarie per il trasferimento di un detenuto dal carcere ad un ambulatorio e viceversa. «Spesso gli istituti penitenziari si trovano lontano dai centri abitati e dai presidi sanitari. In altri contesti, invece, la sanità territoriale non è in grado di soddisfare i bisogni di salute di una numerosa popolazione carceraria. Pensiamo, ad esempio, agli istituti di pena che sorgono nei pressi di piccoli paesi o sulle isole, come Gorgona».
La percentuale di persone affette da una o più patologie è molto più elevata in carcere che tra la popolazione non detenuta. Secondo recenti stime il 70% dei carcerati ha almeno una malattia, il 45% è obeso o sovrappeso, oltre il 40% è affetto da almeno una patologia psichiatrica, il 14,5% da malattie dell’apparato gastrointestinale, l’11,5% da malattie infettive e parassitarie, circa il 53% dei nuovi detenuti è stato valutato a rischio suicidio.
In un quadro simile la telemedicina, ed in generale un rafforzamento di tutti i servizi digitali, dovrebbe essere scontato, ma il carcere vive ancora una anacronistica arretratezza informatica. «La digitalizzazione – spiega Scandurra – è, infatti, uno dei punti fondamentali della proposta avanzata dall’Associazione Antigone per la revisione del Regolamento di Esecuzione risalente al 2000. In carcere non c’è accesso ad internet, non esistono formazione o lavoro a distanza. L’analfabetismo digitale è quasi totale con conseguenze devastanti sia sul futuro reinserimento dei detenuti in società, sia sul loro stato di salute (difficile da monitorare in presenza). Ma – conclude Scandurra – la pena non è, e non può essere, privazione della cura»
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