L’analisi del vicesegretario nazionale Fimmg Domenico Crisarà: «Le case di comunità non risolveranno il problema dell’assistenza territoriale. Il progetto prevede di istituirne una ogni 24.500 abitanti, che in Basilicata significa una casa ogni 435 kmq»
La signora Rosa ha 85 anni e soffre di artrite da quando ne aveva 50. La malattia si è presentata in forma aggressiva, tanto da averle deformato mani e piedi nel giro di pochi anni, impedendole anche i movimenti quotidiani più banali. Rosa vive a Pietrapertosa, un paese di 965 abitanti in provincia di Potenza, che con i suoi 1.088 m s.l.m. è il comune più alto della Basilicata. Inutile specificare che la sua condizione di salute le impedisce di guidare l’auto e che i mezzi pubblici verso centri più grandi non sono così frequenti. Così, il più delle volte, è costretta a rinunciare alle visite mediche di cui avrebbe bisogno. Per alleggerire gli acciacchi tipici dell’età si affida all’auto-medicina e all’esperienza accumulata negli anni.
Le case di comunità, uno dei punti di forza che il Governo vuole mettere in campo con il Recovery Plan per migliorare l’assistenza territoriale, dovrebbero sorgere proprio per aiutare la signora Rosa e tutti quei soggetti ugualmente fragili, che vivono dal nord al sud dell’Italia, isole comprese. Per la loro condizione avrebbero bisogno di un’assistenza, se non domiciliare, almeno prossima alla propria abitazione.
Un obiettivo che già si era tentano di raggiungere attraverso le case della salute, il cui flop, a oltre 10 anni dalla loro istituzione, è stato evidenziato, già nei mesi scorsi, dalla ricerca del Crea Sanità per la Fp Cgil sulle ‘Case della Salute’ in Italia.
«Che le case della salute non siano state utili a migliorare l’assistenza territoriale credo sia sotto gli occhi di tutti – commenta Domenico Crisarà, vicesegretario nazionale della Federazione italiana dei medici di medicina generale (Fimmg) -. L’emergenza Covid è stata un giudice imparziale sull’organizzazione della medicina territoriale, evidenziando e amplificando criticità preesistenti».
Le case di comunità, attualmente proposte con il Recovery Plan, non sembrano differire molto dal precedente e fallimentare progetto. «Soprattutto – spiega Crisarà -, ancora una volta, non si propone un modello di assistenza territoriale realmente prossimo alle case delle famiglie italiane. È prevista l’istituzione di una casa di comunità ogni 24.500 abitanti che, tradotto in strutture operative sul territorio, significherebbe una ogni 90 kmq in Veneto, ogni 191 in Calabria, fino ai 360 kmq della Sardegna e i 435 della Basilicata».
Per fare chiarezza, torniamo alla situazione in cui si trova la signora Rosa, la cui storia è solo un verosimile esempio della condizione in cui vivono molti pazienti fragili nel nostro Paese. Calcolatrice alla mano, 435 kmq (area in cui si prevede l’istituzione di una sola casa di comunità) si traducono in un percorso lineare di poco più di 20 km, la distanza che separa, ad esempio, Pietrapertosa (il paese di Rosa) da Albano Lucania, comune dove ipotizziamo possa sorgere una casa di comunità.
Da Pietrapertosa ad Albano Lucania ci vogliono circa 37 minuti in auto (calcolo effettuato utilizzando Google Maps), almeno il doppio del tempo in autobus. È molto probabile, quindi, che anche con l’apertura delle case di comunità la signora Rosa, e tutti gli italiani che vivono in situazioni simili, continueranno a rinunciare alle cure. «Non è un problema che riguarda solo i paesi montani – sottolinea Crisarà – ma anche quelli situati in pianure vaste e poco popolose o in piccole isole».
Eppure una soluzione ci sarebbe. E la stessa Fimmg l’ha messa nero su bianco e presentata durante l’ultima audizione alla Camera dei Deputati in commissione Affari Sociali. «Il nostro scopo – continua il vicesegretario nazionale Fimmg – è portare la medicina generale il più vicino possibile alle case degli italiani. Innanzitutto, le case di comunità non devono essere istituite in base al numero di abitanti, ma devono tener conto della densità di popolazione. Basandoci su questo parametro, la nostra Federazione ha proposto un progetto flessibile, che prevede l’adozione di tre diversi modelli».
«Il primo, con sede unica (che può essere rappresentata anche da una casa della salute o di comunità) – spiega il vicesegretario nazionale della Fimmg – è adatto a territori con densità abitativa alta (più di 100 ab/kmq). Questa struttura deve garantire un’apertura di 10 ore giornaliere e la copresenza di medico, personale infermieristico e amministrativo».
Il secondo modello, indicato per territori a media densità abitativa (50 ab/kmq), oltre alla sede unica deve prevedere degli ambulatori periferici. «L’apertura di tutte le sedi – aggiunge Crisarà – deve essere garantita sempre per 10 ore al giorno e la struttura centrale dovrà avere le stesse funzioni previste nel primo modello, con l’aggiunta di adeguate tecnologie informatiche che consentano la gestione degli ambulatori periferici».
Poi, nei territori a bassa densità (meno di 50 ab/kmq) sarebbe utile prevedere esclusivamente ambulatori locali, utilizzando anche gli studi dei medici di medicina generale. «La burocrazia deve essere sbrigata per via telematica, così come tutta la gestione amministrativa dovrà essere gestita con sistemi informatici. Gli operatori sanitari – dice l’esponente Fimmg – non presteranno servizio in una sede unica, ma lavoreranno a rotazione periodica, muovendosi all’interno di tutto il territorio, coadiuvando il medico di medicina generale, che è stanziale, presso il suo studio o al domicilio dei pazienti. Questo terzo modello potrebbe essere replicato anche nelle metropoli dove, a causa delle difficoltà di spostamento da una parte all’altra della città, non è pensabile allontanare gli studi dei medici di medicina generale dalle case dei pazienti, soprattutto dei più anziani e fragili».
Infine, qualunque sia il modello adottato, sarà necessario dotare le strutture di strumentazione di primo livello: «Spirometri, ecografi, POCT (tutti quei test eseguibili vicino al paziente o nel luogo nel quale viene fornita l’assistenza sanitaria, per diagnosi di laboratorio, ndr). Non dovranno mancare nemmeno gli strumenti di telemedicina, mezzi di supporto utili ma – conclude Crisarà – che mai potranno sostituire il rapporto vis à vis tra il medico e il suo paziente».
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