Ansia ingestibile e scetticismo verso un miglioramento che non si vede all’orizzonte: cos’è la “climate anxiety”, quella paura della fine del mondo che, secondo un sondaggio Nature, impedisce a tanti scienziati anche di pensare ad avere figli
Si chiama “climate anxiety”, ansia climatica, e chiunque può esserne vittima. Ci si sente in agitazione, tristi e disperati di fronte a disastri naturali, tragedie inattese che fino a qualche anno fa sembravano impossibili. È un misto di un sentimento di sconfitta e di preoccupazione per la propria “casa”, che subisce mutamenti imprevedibili e volti al peggioramento.
Su Nature l’hanno espressa chiaramente i 233 autori del Rapporto sul Clima pubblicato dal Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) statunitense ad agosto. Una valutazione che non lascia molto spazio a riflessioni positive: il mondo sta esaurendo il suo tempo per limitare gli impatti più gravi del cambiamento climatico. Al COP26 di Glasgow la verità sarà messa nero su bianco di fronte ai leader mondiali.
La rivista ha coinvolto 92 tra gli autori in un sondaggio anonimo su come loro si sentono verso il futuro del pianeta e la “climate anxiety” si è mostrata in tutte le sue sfaccettature. Scetticismo verso i governi e conseguente timore che tutto sia perduto ben presto. Per sei su dieci il mondo si riscalderà di almeno 3 gradi entro la fine del secolo, mentre l’obbiettivo dell’Accordo di Parigi richiederebbe 1,5 massimo 2 gradi.
La metà di loro ha dichiarato di aspettarsi cambiamenti drastici nella propria vita dovuti alla crisi climatica e la stessa percentuale ha ammesso di aver riconsiderato le proprie scelte di vita per questa ragione. Oltre il 60% ammette di provare ansia, disagio e dolore per via delle conseguenze del clima.
Il 41% dei partecipanti ha segnato di aver riconsiderato dove vivere per via del clima, il 21% le proprie scelte nello stile di vita (dieta, viaggi e trasporti) e il 17% la decisione di avere figli. Alcuni di loro hanno scelto di non averne per non rischiare di consegnare loro un mondo destinato a finire.
C’è anche qualche segno positivo comunque. Per esempio un 20% degli intervistati si diceva convinto che si sarebbe riusciti a mantenere il surriscaldamento globale entro i 2 gradi e il 4% addirittura entro l’1,5. In molti concordano sull’importanza che ha l’advocacy sul cambiamento climatico, sia verso i leader che verso le persone comuni. Una popolazione estremamente sensibile a queste necessità è quella della Generazione Z, da cui proviene anche l’attivista Greta Thunberg.
I più giovani, che prima della pandemia si riunivano settimanalmente nei Friday for Future, desiderano preservare la loro terra e invitare in qualsiasi modo gli adulti a fare lo stesso. Un messaggio molto incoraggiante, dicono anche gli scienziati dell’IPCC. Sono proprio loro a vivere maggiormente la “climate anxiety”, ma senza farlo in maniera passiva. Combattendo invece i cattivi pensieri con richieste ancora più forti, perché non siano ignorate come non lo sono gli eventi catastrofici che il clima ci costringe a non ignorare. Piogge torrenziali come quella di Catania non sono la normalità e non devono passare come tali. “There is no planet B”, deve essere chiaro.
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