In Italia ne soffrono 3 milioni di donne, in occidente circa 200. Signorile (Presidente della Fondazione Italiana Endometriosi): «Patologia dagli effetti invalidanti, come danni seri all’apparato renale o intestinale, dolori cronici, problemi di fertilità e pesanti risvolti personali, sociali e lavorativi». Il racconto di una ragazza che ne soffre
Ne soffrono tre donne su dieci ma in pochi la conoscono. Spesso i suoi sintomi vengono confusi per dolori da ciclo un po’ più forti e questo genera parecchi problemi a chi ne soffre, sia dal punto di vista lavorativo che sociale. Parliamo dell’endometriosi, una patologia prettamente femminile che consiste nella crescita e nella presenza del tessuto che normalmente si trova dentro la cavità uterina (chiamato, appunto, endometrio) al di fuori della sua sede naturale.
«Ciò comporta – spiega Pietro Giulio Signorile, Presidente della Fondazione Italiana Endometriosi – che il tessuto può aggredire gli organi dove è posizionato e creare uno stato infiammatorio cronico all’interno dell’addome. Nei casi più gravi, la malattia può creare problemi a vescica, utero, retto, ovaie e a tutti gli organi in cui è presente». Si crea così una «sindrome pelvica cronica che comporta diverse limitazioni al paziente. Questa patologia può avere, nei casi più gravi, effetti invalidanti, come danni seri all’apparato renale o intestinale. Ma anche dolori cronici, problemi di fertilità, difficoltà nei rapporti sessuali e pesanti risvolti personali, sociali e lavorativi».
In che senso “risvolti lavorativi”? «Chi ne soffre – spiega ancora Signorile – spesso ha dolori così forti che non riesce neanche ad alzarsi dal letto e andare al lavoro. Spesso, inoltre, queste donne non vengono neanche credute: è difficile spiegare come ci si sente e i sintomi spesso vengono confusi con i dolori mestruali, ma sono tutt’altra cosa. Sappiamo per certo che alcune donne sono state licenziate per questo problema».
Ma quante donne soffrono di endometriosi in Italia? «La stima, sottovalutata, è di tre milioni di donne solo nel nostro Paese, mentre nel mondo occidentale parliamo di 180/200 milioni di casi. In termini assoluti, cioè considerando anche bambine e donne anziane, ne soffre una donna su dieci, ma la popolazione colpita è quella che va tra la pubertà e i 40-50 anni. Per questo possiamo dire che ne soffre il 20-30% della popolazione femminile».
Ad aggravare questa situazione l’assenza di cure: «Non esiste qualcosa che riesca a fermare o eliminare la malattia. Ci sono cure ormonali che servono per ridurre i sintomi, mentre l’unico mezzo curativo è la chirurgia. In questo caso, però, ci sono alte percentuali di recidività». Nessun farmaco, dunque, ma solo «precauzioni alimentari e integratori che riducono l’infiammazione». Ma allora cosa può fare una donna che ne soffre per limitare i danni? «È fondamentale – spiega Signorile – fare diagnosi, andare dal medico, non sottovalutare mai il problema perché può peggiorare. Noi come fondazione facciamo ricerca scientifica, studi su terapie future e sulla parte diagnostica. Non c’è nemmeno un esame che possa diagnosticare questa malattia in maniera precoce. Lavoriamo con aziende italiane all’avanguardia e abbiamo dei brevetti su questo versante. Spero che a breve riusciremo ad avere ottime notizie per quanto riguarda gli esami sul sangue».
«Avere l’endometriosi può significare un raggio ampio di cose. Prima di tutto significa fare i conti con una malattia imprevedibile nelle sue evoluzioni. Tanto può essere silente e non rappresentare un limite nella tua vita, tanto può un giorno renderti impotente e frustrata, farti sentire sbagliata e limitata». Renata ha scoperto di soffrire di endometriosi pochissimi anni fa, quando ne aveva 29, e ci racconta quanto sia difficile conviverci. «Si tratta di una malattia subdola – spiega –, che in prima battuta porta chi ne è affetto a ricercare le cause del suo malessere altrove: da un gastroenterologo, da un proctologo o persino da uno psicologo. Questo perché capita spesso che le infiammazioni non siano visibili attraverso un’ecografia. Personalmente, posso reputarmi fortunata: ho impiegato solo quattro anni per diagnosticarla, perché può servire anche più tempo. Mi capitava sempre più frequentemente di essere vittima di alcune fitte, che aumentando rapidamente di intensità mi portavano a perdere i sensi nel giro di pochi minuti. Le prime volte mi lanciavo dolorante a prendere un antidolorifico, ma l’effetto ovviamente arrivava troppo tardi: non mi restava che stendermi a terra fino a quando non avrei perso i sensi dal dolore, giusto per evitare di andare a sbattere con la testa da qualche parte».
In questi anni Renata ha dovuto fare i conti non soltanto con i dolori e la mancanza di terapie efficaci, ma anche con il resto del mondo, del suo mondo, che spesso tende a sottovalutare il suo malessere: «Capita soprattutto con gli uomini, a volte persino gli stessi ginecologi. Ma mi viene da dire che le prime a sottovalutare il problema siamo noi donne che ne siamo affette: sia quando non sapevamo di esserlo, sia dopo la diagnosi. Io sono tra quelle che non riesce ad accettare che la malattia interferisca con le mie abitudini. In generale, infatti, si finisce per negare il dolore a se stesse, a sopportarlo fino a quando non diventa veramente ingestibile e a compromettere il normale svolgimento delle proprie attività».
Renata racconta dei suoi momenti di difficile convivenza con questa patologia. Convivenza che, in tempi di Covid, è diventata ancora più dura: «Basti dire che fino a un mese fa ero riuscita a trovare un posto da privato per un’ecografia, che, importante dirlo, va fatta solo in determinati giorni, quelli immediatamente successivi alla mestruazione. Non potendo andare per motivi di lavoro, ho tentato la prenotazione un mese dopo, in piena seconda ondata, e mi hanno negato questa possibilità. Ora tocca aspettare, non si sa quanto».
Trattandosi inoltre di una malattia invalidante ma non mortale, in questo momento le patologie croniche di questo tipo sono l’ultimo dei pensieri per il nostro sistema sanitario: «Proprio pochi giorni fa, a inizio novembre, ero da sola in casa e mi sono ritrovata senza antidolorifici. Il dolore mestruale è stato così forte da farmi perdere i sensi. Dopo essere svenuta, con gli spasmi che non diminuivano di intensità e reputando impossibile l’eventualità di raggiungere una farmacia, ho provato a chiamare un’ambulanza. Non l’ho mai vista arrivare. Il giorno dopo ho saputo che è arrivata, di notte, addirittura nove ore e mezza dopo. Dopo cinque minuti che ero davanti casa speranzosa ad aspettarla i vicini, persone che non conoscevo in quanto mi ero appena trasferita, mi hanno vista piegata su me stessa. Si sono presi cura di me, mi hanno dato due pillole di medicinale analgesico-antinfiammatorio che ha iniziato a farmi effetto due ore dopo. Non sono morta, non rischiavo la vita, certo. Ho trascorso però quattro ore di sofferenze atroci che non auguro a nessuno. In una situazione pre-pandemia – conclude Renata – tutto questo non sarebbe mai accaduto».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato