Sono 17 i centri lombardi autorizzati, tra cui l’Ospedale Niguarda. Il direttore del reparto di Malattie Infettive Puoti: «Efficace se tempestiva, rapida e precisa. Obiettivo ridurre l’ospedalizzazione del 70%»
Sono diciassette i reparti di malattie infettive degli ospedali lombardi che da giorni testano sui pazienti Covid gli anticorpi monoclonali. Il protocollo, approvato da AIFA lo scorso febbraio, è entrato dunque nella fase operativa. Tra i centri attenzionati l’Ospedale Niguarda, dove abbiamo raggiunto il dottor Massimo Puoti, direttore del reparto di malattie infettive.
«Da sei giorni è iniziato l’utilizzo al Niguarda – spiega -. Il primo caso è stato attivato dalla medicina d’urgenza, mentre gli altri tre sono trattati dagli infettivi. Gli anticorpi monoclonali sono stati inoculati con una sola infusione nelle primissime fasi dell’infezione, quando abbiamo riscontrato l’insorgenza dei sintomi da Covid».
Un procedimento con il quale gli anticorpi si legano alla proteina spike e diventano inibitori dell’ingresso del virus nella cellula. «È fondamentale dunque essere tempestivi e rapidi – prosegue il direttore delle malattie infettive -. Non funziona nei soggetti che hanno già bisogno di ossigeno e che devono essere ricoverati. Vale invece la pena usarli nei soggetti che potrebbero avere una evoluzione grave della malattia pur essendo ancora in una fase paucisintomatica».
Una selezione di pazienti Covid è stata fatta sulla base dei criteri indicati da AIFA nel momento in cui è stato approvato l’uso di questa terapia. Secondo le direttive europee sono soggetti indicati a ricevere gli anticorpi monoclonali: persone con BMI (indice di massa corporea) uguale o superiore a 35; pazienti sottoposti a dialisi o emodialisi; coloro che hanno diabete mellito non controllato o complicanze croniche, immunodeficienze primitive, immunodeficienze secondarie con particolare riguardo ai pazienti onco-ematologici in trattamento con farmaci immunosoppressivi e mielosoppressivi a meno di sei mesi dalla sospensione delle cure; pazienti con malattie cardio-cerebrovascolari inclusa ipertensione o malattie respiratorie; giovani tra i 12 e i 17 anni con BMI maggiore o uguale a 85 percentile per età e genere, con anemia falciforme, con malattie cardiache congenite o malattie del neuro sviluppo; soggetti con tracheotomia o gastrostomia, o con asma.
«Il costo di una fiala di anticorpi monoclonali va dai 1500 ai 2000 euro – precisa Puoti -, deve essere perciò utilizzata nei casi previsti anche perché come in tutte le sperimentazioni ci sono effetti collaterali, seppur minimi. In casi rari è stato riscontrato shock anafilattico, risolto brillantemente peraltro, mentre più frequenti sono stati casi di nausea, vertigini, prurito. Nulla di allarmante o preoccupante, in ogni caso».
Gli studi fatti negli Stati Uniti su oltre 1000 pazienti hanno evidenziato che l’efficacia degli anticorpi monoclonali determina una riduzione del 70% delle ospedalizzazioni. «È necessario perciò essere rapidi, tempestivi e precisi – sottolinea Puoti -. Ai primi sintomi febbrili si esegue il tampone. Se risulta positivo, il medico di medicina generale, il pediatra di libera scelta o uno specialista se c’è una patologia pregressa, valuta se il paziente ha le caratteristiche che lo rendono eleggibile per questa terapia. In tal caso ci contatta, noi lo visitiamo ed entro le 24 ore procediamo con una infusione di anticorpi monoclonali. Una volta fatta l’infusione, che è monodose, il soggetto torna a casa e viene monitorato nei giorni successivi per la frequenza respiratoria e cardiaca e la saturazione, effettuando il test del cammino che rileva la diversa saturazione dopo sei minuti di attività fisica».
«Il tutto viene gestito da personale Usca o infermieri di comunità. L’obiettivo è non ospedalizzare il paziente. Il successo della terapia si evince quando non deve essere somministrato il cortisone o il remdesevir, il che significa che non si determina una insufficienza respiratoria. In concomitanza con la somministrazione degli anticorpi monoclonali – aggiunge -, al paziente si può dare solo tachipirina».
C’è un quesito sollevato dalla Food and Drug Administration negli Usa che ancora non ha avuto risposta: alcuni anticorpi monoclonali sembrerebbero meno efficaci nelle varianti sudafricana e brasiliana. «Per questo bisogna essere oltre che tempestivi e previdenti anche precisi – sottolinea il direttore delle malattie infettive del Niguarda -. L’ideale sarebbe identificare per tempo quale variante ha colpito il paziente, ma ad oggi per fare questo ci sono test molto lunghi che impiegano anche 5 o 6 giorni. La speranza è di avere al più presto prodotti in grado di identificare la presenza di una variante piuttosto che di un’altra in tempi rapidi come accade oggi con i tamponi nella ricerca del virus».
Se in futuro, dunque, ci saranno test in grado di capire in pochi minuti se il paziente è positivo al Covid e per quale variante, già oggi esistono delle condizioni da rispettare dopo la somministrazione degli anticorpi monoclonali. «Chi li riceve non può fare il vaccino se non dopo 90 giorni dall’infusione, perché questo andrebbe a creare un conflitto».
La battaglia contro il Covid sembra aver trovato negli anticorpi monoclonali un’arma vincente, anche se, conclude Puoti, «aspettiamo con ansia le terapie antivirali precoci con le quali si stanno facendo degli studi e che renderebbero ancora più agile la somministrazione. Si tratta infatti di pillole da prendere a casa molto meno invasive delle infusioni e più facilmente gestibili».
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