La ricerca cardiovascolare guarda alla medicina rigenerativa per vincere la sfida contro le malattie cardiache, oggi prima causa di morte nel mondo occidentale. Silvia Priori (SIMCRI): «L’obiettivo è creare le condizioni per rigenerare il tessuto cardiaco e ristabilire le normali funzioni del cuore»
Dalla medicina rigenerativa una speranza per affrontare le patologie cardiache che ancora oggi sono la prima causa di morte negli individui. È questa l’ultima sfida della ricerca cardiovascolare che, per riparare il muscolo più importante del nostro corpo, ha intrapreso due strade: l’impiego delle cellule staminali per rigenerare il tessuto cardiaco e l’utilizzo dei vettori virali per somministrare terapia genica a base di DNA ed RNA.
Il cuore, come il cervello, è un organo le cui cellule non si replicano: quindi, se vanno incontro ad un danno, non sono in grado di essere sostituite da nuove cellule. «Questo è un grave problema a cui la ricerca sta cercando di trovare una soluzione da molti anni – spiega a Sanità Informazione Silvia Priori, Professore Ordinario di Cardiologia presso il Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Pavia e membro del comitato scientifico di SIMCRI (Società Italiana di Medicina e Chirurgia Rigenerativa Polispecialistica) -. In particolare, quando si verifica un infarto del miocardio, si ha una occlusione delle “coronarie”, le cellule cardiache di una parte del cuore muoiono e vengono sostituite da una cicatrice fibrosa che, non essendo in grado di contrarsi, riduce l’efficienza del cuore nel distribuire sangue all’organismo. Come ulteriore conseguenza si genera un rimodellamento del cuore che nel tempo porta ad una progressiva perdita della contrattilità e causa uno scompenso cardiaco che può portare il paziente alla morte».
La sfida intrapresa dalla medicina rigenerativa è quella di utilizzare le cellule staminali per riparare il danno. «Il nostro organismo ha la fortuna di avere in diversi organi, quali i muscoli o il midollo osseo, delle cellule che hanno la capacità di trasformarsi e diventare nuove cellule cardiache – riprende la cardiologa pavese -, il progetto ambizioso a cui si lavora da diversi anni è quello di poter iniettare nella zona fibrosa del tessuto infartuato le cellule staminali affinché possano diventare cardiomiociti e creare le condizioni per poter rigenerare il tessuto cardiaco sano e compensare quella capacità di contrarsi che la cicatrice ha fatto venire meno, in modo da ristabilire la funzione del cuore. Grazie alla sperimentazione sull’animale, negli ultimi anni, sono stati fatti importanti passi avanti che fanno sperare di poter riparare la perdita di cardiomiociti in diverse patologie cardiache».
La ricerca ha fatto passi da gigante anche se l’ottimizzazione del trattamento rigenerativo richiede ancora lavoro in laboratorio. «In particolare – sottolinea Priori – per evitare rischi quali l’insorgenza di aritmie cardiache che possono svilupparsi quando il contatto fra i “nuovi cardiomiociti” e quelli presenti nell’organo che riceve il trattamento, non risulta ottimale». Un altro approccio alla terapia rigenerativa del cuore è dato dalla possibilità di “risvegliare” la capacità replicativa dei cardiomiociti che si osserva nel cuore umano in epoca fetale e dei primi giorni dopo la nascita. «Questa strategia sembra avere una buona possibilità di successo – aggiunge -, ma studi preclinici sono necessari per raggiungere la sicurezza che tale terapia non causi effetti collaterali come una crescita incontrollata ed eccessiva del nuovo tessuto cardiaco. Ora che gli studi clinici stanno aumentando, è comunque necessario che ogni sperimentazione umana sia condotta secondo schemi rigorosi di sorveglianza degli esiti della terapia rigenerativa».
La medicina riparativa può essere una importante alleata anche contro le malattie genetiche del cuore. «In queste malattie, che si manifestano in soggetti di giovane età, dobbiamo affrontare un problema molto complesso – analizza la ricercatrice – perché le cellule cardiache sono alterate in modo da esporre a rischio di arresto cardiaco. In questa situazione, per ridurre il rischio aritmico, non dobbiamo ripristinare la funzione in una area ristretta del cuore, come accade nella rigenerazione di tessuto cardiaco a seguito di un infarto, ma dobbiamo “riparare” il difetto genetico in una percentuale di cellule cardiache vicina la 50%. Per ottenere questo risultato si utilizzano molecole di DNA o di RNA disegnate in modo specifico, in modo da correggere il difetto del gene alterato. Poiché DNA e RNA sono molto fragili è necessario somministrarli in un “involucro protettivo” in modo da fare arrivare queste molecole nel nucleo delle cellule cardiache. Inaspettatamente, il metodo migliore oggi sembra essere di utilizzare virus adeno-associati privati della capacità di replicarsi e quindi non in grado di danneggiare le cellule cardiache». Si utilizzano le molecole curative di DNA quando è necessario aumentare la quantità di specifiche proteine, ridotte dal difetto genetico; viceversa, quando il paziente è affetto da una patologia causata dall’eccesso di alcune proteine, si usano molecole di RNA per ottenere una riduzione nella sintesi di queste proteine presenti in quantità tossica.
«È interessante notare come, nella tragedia della pandemia, si sia creata l’opportunità di testare su grande scala una terapia basata sulla somministrazione di RNA, che ha dimostrato l’utilità di questo approccio e i limitati effetti collaterali ad essa associati – evidenzia Priori -. In Italia una delle azioni di supporto agli avanzamenti della scienza biomedica previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è rappresentato proprio dal finanziamento alla creazione di un network di scienziati che lavoreranno insieme per sviluppare terapie RNA per malattie genetiche rare, incluse le patologie cardiache. Come per le terapie biologiche rigenerative, anche per le terapie geniche riparative siamo nella fase di transizione dalla ricerca preclinica agli studi clinici con nuove possibilità terapeutiche per i pazienti affetti da malattie ereditarie».
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