Il 40% dei deceduti nelle residenze assistenziali aveva virus o sintomi, Rezza (direttore Malattie infettive Iss): «Zone rosse intorno alle Rsa»
Il trend dei contagi si conferma in discesa, ma è presto per parlare di “Fase 2”. È il messaggio che emerge dalla conferenza stampa dell’Istituto superiore di sanità (Iss) sull’emergenza Covid-19. «L’analisi dei deceduti attraverso le cartelle cliniche è chiara – ha affermato il presidente Iss Silvio Brusaferro –: in oltre il 60% dei decessi erano presenti tre o più patologie, con 2 patologie siamo all’82%. La fragilità delle persone e la concomitanza delle patologie sono elementi determinanti nel caso di decesso». La complicanza maggiormente riscontrata si conferma la polmonite; in quantità minore il danno renale (23%), poi altre infezioni (12%) e infine i danni miocardici (9%). Anche nel caso della Lombardia la curva mostra un decremento, e la stessa tendenza si osserva in Veneto ed Emilia Romagna. «La curva – ha proseguito Brusaferro – mostra sempre la storia di un Paese che ha zone diverse, con intensità di circolazione del virus diverse, che si mantengono tali. Ma ci racconta anche che l’adozione delle misure restrittive ha funzionato».
Sull’origine dei nuovi contagi si è espresso Gianni Rezza, direttore Malattie infettive dell’Iss, e le strutture più colpite si confermano le residenze assistenziali. «Le Rsa – ha evidenziato l’esperto – sono indicatori dell’epidemia, ma anche degli amplificatori. Nel senso che, quando vediamo un focolaio in una Rsa, vuol dire che in qualche modo in quella zona il virus sta circolando ed è stato introdotto all’interno di quella struttura». Molte zone rosse sono infatti nate da focolai originatisi nelle Rsa, ha aggiunto.
«Complessivamente più del 40% dei residenti deceduti nelle Rsa aveva sintomi riconducibili all’infezione o il tampone positivo» ha spiegato Graziano Onder, direttore del Dipartimento Malattie cardiovascolari, endocrino-metaboliche e invecchiamento dell’Iss, illustrando l’indagine effettuata in questi giorni. La survey ha coperto oltre 80mila residenti, con maggiore distribuzione nel nord Italia.
«Abbiamo chiesto alle strutture quanti decessi sono stati registrati dal 1 febbraio al 15 aprile – ha concluso Onder –. Le informazioni che ci sono state date riguardano tra i 6-7mila decessi, un campione pari al 7-8% di tutti i residenti. Abbiamo chiesto poi quanti di questi avessero un tampone positivo (circa un migliaio) e quanti i sintomi riconducibili al Covid-19 o simil influenzali».
Ma il virus si trasmette anche nelle case, dove oltre 75mila italiani contagiati sono in isolamento domiciliare. «Chiaramente l’isolamento domiciliare comporta un rischio maggiore di trasmissione intra-familiare – ha specificato Rezza –, se non ci sono le condizioni adatte e se non si rispettano le regole. Magari l’Asl fa il controllo ogni giorno, ma bisogna essere molto disciplinati». Una disciplina che, ha ammesso l’esperto, può rivelarsi complessa in abitazioni piccole, con un solo bagno in comune.
In Cina la scelta di allontanare i soggetti contagiati dalle proprie abitazioni sembra aver avuto effetti positivi sull’isolamento del virus. «Sia le persone malate che i contatti sono stati portati in strutture apposite – ha analizzato Rezza – con le buone o le cattive maniere. È il bello e il brutto di democrazie e regimi. Credo che in Italia, come in altre democrazie occidentali, ciò non sia molto possibile».
Per la “Fase 2” gli esperti invitano alla costruzione di una strategia impeccabile. Per il direttore Rezza: «Sarà cruciale l’identificazione rapida dei focolai, che vuol dire identificazione rapida dei casi, diagnosi, isolamento, rintraccio dei contatti e loro isolamento, e azioni di contenimento». Tornerà centrale la misura sulle “zone rosse”. «Può sembrare un paradosso – ha osservato Rezza – ma se la circolazione del virus si riduce, tanto più c’è bisogno di zone rosse, che non a caso sono più frequenti nelle aree meno colpite».
Per recuperare un tracciamento più chiaro dei nuovi casi, gli esperti ribadiscono l’importanza del contact tracing. La “strategia della rinascita” suona così: «Dovremo usare un po’ di distanziamento sociale e un po’ dell’hi-tech coreano per il tracciamento dei contatti – ha concluso l’infettivologo – ma soprattutto dovremo essere 10 volte più pronti nell’identificare e controllare».
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