Salute 23 Marzo 2020 17:03

«Conoscere il nemico è la prima arma per batterlo». Conversazione con il professor Luigi Frati

Insieme al presidente dell’Institut Pasteur di Roma e direttore scientifico dell’IRCCS Neuromed, già preside della Facoltà di Medicina e rettore dell’università Sapienza, analizziamo i principali aspetti, conosciuti e non, della pandemia che sta sconvolgendo il mondo

«Conoscere il nemico è la prima arma per batterlo». Conversazione con il professor Luigi Frati

Sono tante le domande che, a un mese dallo scoppio dell’epidemia di Covid-19 in Italia, la comunità si pone per cercare di capire, dare un senso e provare a fermare la scia di morte e paura che il virus, giorno dopo giorno, sta lasciando dietro di sé. Affrontare il momento con dati reali, improntati al rigore scientifico, che garantiscano un’informazione chiara e accreditata per i cittadini, è ora più che mai essenziale. Insieme al professor Luigi Frati, patologo, presidente dell’Institut Pasteur di Roma, direttore scientifico dell’IRCCS Neuromed e già preside della Facoltà di Medicina e rettore dell’università Sapienza di Roma, abbiamo cercato di trovare le risposte a questi interrogativi.

Professore, che cos’è questo coronavirus?

«Dall’analisi del genoma che è stata completata dai colleghi dell’Istituto Pasteur di Shanghai, risulta che questo virus presenta alcune similitudini con quello della Sars del 2003, ma anche alcune differenze. In percentuale, è all’85% come quello della Sars e per il 15% diverso. Le similitudini riguardano, ad esempio, l’antirecettore del virus, lo spike protein (proteina a punta, quella che viene disegnata nei giornali con gli spuntoni rossi) presente sulla superficie del virus che interagisce con lo stesso recettore cellulare ACE2 del virus della Sars. Dunque la famiglia è la stessa: genomica uguale per gran parte e stesso recettore cellulare. I cinque o sei amminoacidi caratterizzanti l’antirecettore del virus della Sars hanno il residuo della tirosina, che è un amminoacido complesso, con un’importante catena laterale, conservato nel nuovo virus e in grado di far reagire l’antirecettore con il recettore cellulare ACE2».

Sappiamo che ha origine animale, ma quando ha fatto il salto di specie?

«Probabilmente a ottobre del 2019. Non è la prima volta che questo tipo di virus fa il salto di specie. Anche l’influenza passa dagli uccelli all’uomo con conseguente fusione di frammenti del genoma aviario con quello umano. Stessa cosa accadde con l’influenza suina H1N1 del 2009, dove si sono fuse parti di genoma aviario, suino e umano, e questi salti avvengono dove i contatti tra animali e persone sono usuali. La Cina è da un lato fortemente industrializzata, ma dall’altro conserva caratteristiche spiccatamente rurali, dove l’uomo convive con animali di tutti i tipi in tutte le maniere. Anche con Ebola, ad esempio, il passaggio si è avuto tramite i pipistrelli da frutta: le persone si sono cibate di frutti non lavati già toccati da animali infetti. Poi il passaggio tra esseri umani ha fatto sì che si modificasse l’antirecettore virale aumentando di molto l’affinità e quindi dando una infettività e una patogenicità molto maggiore».

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Quando si è capito che si trattava di un nuovo virus?

«A fine dicembre, quando vengono ricoverati  in un ospedale di Wuhan quattro pazienti della stessa famiglia con polmonite grave. Questo allarma i medici, i quali facendo un’indagine genetica si accorgono che è un Coronavirus un po’ diverso ed effettuando la sequenza completa si accorgono di quelle differenze e similitudini di cui parlavamo prima. Le differenze comportano il fatto che nessun individuo è immunizzato, e che gli anticorpi che qualcuno può aver sviluppato con la Sars non erano efficaci contro questo virus. Questo fattore è determinante per comprendere la diffusione dell’epidemia prima e della pandemia dopo. Il maggior fattore di diffusione è costituito dai soggetti asintomatici o paucisintomatici, che sono diffusori inconsapevoli della malattia».

Sappiamo quando è arrivato in Europa?

«Credo che verso dicembre ci sia stata una infezione contemporanea inconsapevole e non riconosciuta in molti Paesi europei scambiata, per un mese abbondante, per semplice influenza e che quindi non ha suggerito approfondimenti clinici. Non è detto, ad esempio, che il famoso paziente tedesco sia stato veramente il primo e che sia il primo anello della catena dei contagi in Italia. Quel che è certo è che è precedente al caso del lodigiano».

Lei crede che i casi del lodigiano e di Vo’ Euganeo siano collegati?

«Collegati tra loro non è detto. Certamente di derivazione dall’epidemia originatasi a Wuhan. Come anche l’OMS raccomanda, è importante cercare di sapere la “storia” dei contagiati, soprattutto per ricercare i paucisintomatici che rappresentano il vero problema nel contenimento dell’infezione. Esemplare ciò che è stato fatto in Veneto, dove la Regione ha dedicato particolare attenzione a questo aspetto effettuando i test anche a soggetti per i quali le indicazioni non lo consigliavano espressamente, e questo ha permesso di spegnere l’infezione perché sono state trovate positive e quindi isolate anche persone asintomatiche che in assenza di tampone sarebbero andate in giro a diffondere il virus. Per ridurre i contagi, ad oggi l’unica vera arma è l’isolamento, visto che il vaccino non potrà essere disponibile prima di un anno, un anno e mezzo».

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È possibile fare paragoni tra questa ed altre importanti pandemie nella storia?

«Il paragone che viene fatto più di frequente è quello con la famosa “spagnola” del 1918. La verità è che si tratta di epidemie non paragonabili, perché nel 1918 si usciva dalla prima guerra mondiale, le condizioni igienico-sanitarie della popolazione non erano sovrapponibili in alcun modo a quelle di oggi, c’erano persone denutrite ovunque, gli ospedali erano lazzaretti e i farmaci, a parte l’acido acetilsalicilico che cura semplicemente il sintomo, non esistevano. Solo così si spiegano le decine di milioni di morti. Non dimentichiamoci che fino agli anni ’30 una semplice appendicite risultava letale. Un altro fattore profondamente mutato è la mobilità degli esseri umani: nel passato un’epidemia poteva nascere e morire nello stesso territorio, oggi non è più così. Con qualche viaggio in aereo una decina di infetti spargono l’infezione in tutto il mondo. Quindi, in generale, le epidemie sono meno letali perché il sistema sanitario si è evoluto, ma la contagiosità è un aspetto molto più diffuso».

Allora come mai questa pandemia ci ha colti impreparati?

«Perché la politica legge poco le riviste scientifiche e segue raramente le ragioni della scelta, cosicché non si è mai posta il problema della possibilità di  una nuova pandemia. Eppure c’è uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine che ha analizzato 100 anni di pandemie influenzali, dalla spagnola del 1918 fino a quelle di questo secolo, e i risultati hanno evidenziato che se si fosse verificata un’altra pandemia come quella “spagnola” negli USA sarebbero stati necessari 2 milioni di posti di terapia intensiva. E oggi ci troviamo infatti a gestire quest’emergenza con un numero insufficiente di posti in terapia intensiva».

Come mai alcune Regioni sono colpite molto di meno dal virus?

«Parliamo della Basilicata e del Molise, che sono regioni isolate, con un sistema di collegamenti poco efficiente, ma con un un buon sistema culturale, in cui l’informazione e il rigore scientifico hanno ancora molta presa sulla popolazione e dove si riscontra una particolare adesione alle regole, comprese quelle di natura sanitaria. Si tratta di fattori che concorrono indubbiamente a frenare i contagi. E – almeno in Molise – la Regione, appena in una città anche piccola vi sono 5-10 positivi, fa scattare la zona rossa. Può sembrare una scelta “cattiva” (la gente al momento può non capire, le industrie possono nell’immediato protestare), ma in realtà è la decisione più scientifica che ci sia. Se in tutta Italia ci fossero stati uguale rigore e disponibilità al sacrificio sin da febbraio oggi avremmo un controllo della diffusione epidemica assolutamente migliore».

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