Aumentano le segnalazioni di persone e associazioni che lamentano l’impossibilità di continuare le cure: «In alcuni casi i pazienti non vanno in ospedale per paura del virus, in altri l’assistenza non funziona. Alla fine dell’emergenza conteremo i morti per Covid-19 e di chi non è riuscito a curarsi»
Tantissime persone, in particolare malati oncologici e cronici, non vanno in ospedale per continuare le cure necessarie. E lo fanno non solo perché hanno paura di contrarre il Coronavirus, ma anche perché le strutture, in questo momento, non sono organizzate in modo da dare l’aiuto necessario. L’assistenza domiciliare non funziona e «l’aumento delle segnalazioni che riceviamo – spiega Antonio Gaudioso, segretario di Cittadinanzattiva – ci fa temere che, finita questa emergenza, conteremo non solo i morti per Covid-19, ma anche quello delle persone decedute perché non hanno avuto la possibilità di curarsi».
Segretario Gaudioso, cosa sta facendo Cittadinanzattiva per dare il suo contributo in questa emergenza?
«Quotidianamente facciamo riunioni per organizzare l’attività di gestione dell’emergenza Coronavirus. Dalle attività di monitoraggio sulle differenze gestionali da parte delle regioni alle procedure di mobilitazione di risorse che stiamo attuando a favore dei medici di famiglia, dei farmacisti e di tutte le altre categorie territoriali. Insomma, tutta una serie di azioni operative che Cittadinanzattiva sta portando avanti, sul fronte, per sostenere i professionisti e le comunità in questa delicata fase».
Qual è la situazione sui territori ad oggi?
«Quel che sta emergendo in questo momento è che, da una parte, c’è un problema che riguarda la gestione dell’emergenza delle persone affette da Covid-19. Parliamo dei chiarissimi problemi collegati ad esempio ai tamponi, ai test sierologici, eccetera. Dall’altra parte però abbiamo un problema che ci preoccupa molto: la gestione dei malati cronici. In questo momento ci sono tantissime persone che non si stanno curando, o perché hanno paura di recarsi in ospedale e contrarre il virus, o perché dovrebbero essere curate e gestite a casa e, in questo momento, non lo sono. Parlo dei malati oncologici, i malati cronici, insomma di tutte quelle persone che hanno particolari condizioni di fragilità e che necessiterebbero di aiuti e assistenza a casa. Esiste però un altro tipo di problema su cui stiamo concentrando i nostri sforzi, e riguarda tutta l’attività di prevenzione che ha a che fare con la gestione, ad esempio, dei vaccini e degli screening. Stiamo facendo un monitoraggio proprio in queste ore da cui emerge chiaramente che ci sono regioni in cui i vaccini sono stati bloccati fino a nuova comunicazione, quindi a data da destinarsi. Altre regioni, invece, si sono riorganizzate spostando le date, in modo da attrezzarsi per l’emergenza e poi, successivamente, erogare i vaccini. È evidente che se sosteniamo che la prevenzione è fondamentale, non possiamo bloccare le vaccinazioni. Sarebbe assurdo. In questo caso però, e a maggior ragione se parliamo di vaccini, questi potrebbero essere tranquillamente fatti non in ospedale, ma in realtà sicure, quindi a casa o nei distretti sanitari territoriali. Emerge dunque, ancora una volta, la differenza tra le varie realtà e i diversi modelli regionali, che in questo momento sono un po’ disfunzionali, per usare un eufemismo».
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Ci sono dei dati in merito alle persone che non si curano per paura o impossibilità di farlo?
«La qualità dei dati è penosa, è difficilissimo reperirli. Quelli che possiamo raccogliere sono limitati alle segnalazioni che riceviamo. Ci sono persone che ci chiamano, ad esempio, per chiedere di poter avere assistenza domiciliare per le cure oncologiche. Nei giorni scorsi abbiamo fatto una richiesta, insieme alla Fondazione per la medicina personalizzata e all’associazione che mette insieme le reti oncologiche delle regioni per chiedere a queste di attivare, con urgenza, dei percorsi di cura al di fuori dell’ospedale per i malati oncologici. Abbiamo chiesto non solo di allungare i piani terapeutici per quanto riguarda i malati cronici, in modo che non debbano per forza recarsi in ospedale, ma che questi siano allargati anche ai prodotti che hanno a che fare con i presidi medici, e che quindi possono essere consegnati a casa. Abbiamo chiesto anche di attivare la distribuzione per conto, quindi la possibilità di ricevere nella farmacia più vicina tutta una serie di prodotti necessari, e di procedere con la consegna domiciliare laddove questa non sia disponibile. Il punto è che se ci viene chiesto di restare a casa, noi ci restiamo. Ma per le persone che hanno patologie critiche questo processo deve essere sostenibile. Un malato deve poter rimanere a casa avendo la possibilità di curarsi. Ma il punto è che, drammaticamente, il livello di assistenza domiciliare nel nostro Paese, in media, fa pena, a parte alcune eccezioni che invece funzionano bene. Il novero di segnalazioni che ci arrivano, sia dalle associazioni di malati cronici sia da singoli pazienti che ci chiamano per avere sostegno, è in grandissimo aumento e ciò ci fa temere che, alla fine di questa emergenza, non conteremo solo il numero di morti per Covid, ma anche quello delle persone decedute perché non hanno avuto la possibilità di curarsi».
Si potrebbe approfittare di questa situazione per rafforzare questo tipo di assistenza…
«È una battaglia che le organizzazioni portano avanti da decenni. Dopo anni di dibattiti e discussioni, ora siamo costretti in pochi mesi a fare quel che non siamo riusciti a fare in 20 anni. Se riusciamo a rendere possibili, in questa fase, tutta una serie di cose, sarà un ottimo risultato. Ad esempio, nei giorni scorsi abbiamo sostenuto una campagna molto bella dell’Associazione Parkinson Italia, relativa ad un partenariato civico-privato per dare gratuitamente teleassistenza a casa per i pazienti. Anche in questo caso si è dimostrato come il coinvolgimento di soggetti pubblici possa portare a fare, e bene, le cose. Ora, avere la possibilità di utilizzare anche questa fase per mettere sul campo tutte quelle soluzioni di cura che possono essere realizzate anche a casa, ci darebbe la possibilità almeno di imparare qualcosa da questo disastro. Qualcosa che ci servirà anche dopo».
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