Alberto Pellai fornisce consigli su come gestire angoscia e preoccupazione: «Partire da fatti e dati oggettivi. La probabilità reale che ognuno di noi ha di morire a causa del coronavirus è forse l’equivalente di morire in un incidente stradale. Eppure continuiamo a prendere la macchina»
L’Italia è il terzo Paese al mondo per numero di contagi da nuovo coronavirus. Il Governo ha varato un decreto-legge per contenere l’epidemia e gli amministratori delle Regioni del Nord d’Italia, le più colpite dall’infezione, sono corsi ai ripari con la chiusura di bar, discoteche, scuole e università e sospendendo manifestazioni ludiche, sportive e religiose. Supermercati presi d’assalto, viaggi annullati, mascherine protettive, disinfettanti, detergenti e saponi ormai introvabili: la preoccupazione sta prendendo il sopravvento.
Ma perché il coronavirus ci fa tanta paura? E come controllarla ed esorcizzarla per non farsi prendere dal panico? Lo abbiamo chiesto ad Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta e ricercatore al dipartimento di scienze biomediche dell’Università di Milano, che in un post su Facebook ha spiegato come parlare dell’emergenza ai bambini.
Dottore, la diffusione del Coronavirus in Italia continua a crescere e con lei l’ansia dei cittadini. Qual è il primo meccanismo che scatta nelle persone di fronte a un’emergenza di questo tipo?
«Tutto quello che non ci è noto, non conosciamo e può rappresentare una minaccia provoca sempre, nel nostro cervello, una reazione di allarme, che può essere ansia, paura o fobia. In questo momento è una paura conclamata perché il coronavirus ci viene raccontato come una minaccia mortale alla quale siamo tutti suscettibili».
Quali sono le reazioni più frequenti delle persone?
«Una sorta di pensierosità rimuginante fissa costante. Non si pensa ad altro, tutto diventa pericoloso e si vive come sotto assedio. Di conseguenza, bisogna mettere in atto tutte le difese possibili di cui noi siamo capaci. È una modalità con cui ci sembra di avere il controllo su qualcosa che, invece, è incontrollabile: questo spiega l’andare a fare spese esagerate al supermercato, in modo da essere salvi per le prossime settimane».
Esistono dei comportamenti inefficaci o addirittura controproducenti?
«Abbiamo uno Stato che ci dice cosa si può fare e non si può fare, in modo chiaro. C’è un decreto-legge: non si può andare a scuola, non si deve uscire dalle zone in isolamento e ci si deve attenere alle norme igieniche e alle precauzioni comportamentali che vengono fornite. La vita di molti è tanto limitata, ognuno deve fare in modo di trovare i suoi spazi di libertà, e non limitarci ulteriormente, altrimenti passiamo dalla preoccupazione all’ossessione».
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Quali sono le misure antipanico da adottare per gestire e controllare questo stato di inquietudine che cresce costantemente nella popolazione e a cui forse, la gente non era preparata?
«Si parte dai fatti e dai dati oggettivi. In questo momento ci sono focolai di infezione, c’è un rischio di pandemia, ma è anche vero che i morti sono pochi e stiamo parlando di pazienti con altre patologie pregresse. La probabilità, reale, che ognuno di noi ha di ammalarsi è quasi inesistente: la probabilità che ognuno di noi ha di morirne è ancora più bassa ed è forse l’equivalente dell’andare in auto tutti i giorni sapendo che possiamo fare incidenti. E questo non distoglie ciascuno di noi dall’intenzione di prendere la macchina per spostarsi».
L’invito quindi è provare a leggere la situazione in modo lucido, cercando di non farsi trasportare dall’onda emotiva?
«Certo, come in ogni cosa della vita. Noi funzioniamo molto meglio se mettiamo l’aspetto razionale davanti a quello emotivo. È anche vero che in questo momento fare questo lavoro è molto complesso perché noi in ogni momento, dal telegiornale, veniamo allertati solo dai dati negativi: i nuovi decessi, il numero dei contagiati che sale. Al nostro cervello nessuno dà l’altro genere di informazioni che potrebbero farci sentire protetti e al sicuro».
Si può dire che è un modo per “prepararsi al peggio”?
«Sì, ma rimane il dato di fatto che noi funzioniamo bene se di fronte al problema e all’evento oggettivo facciamo le cose migliori. In questo momento è come se noi avessimo schierato in trincea un esercito senza avere dall’altra parte un nemico reale ma solo la sua immagine».
L’ultima domanda è per i bambini: cosa dobbiamo fare per tranquillizzarli?
«I bambini, in realtà, non appartengono al gruppo clinico di questa infezione, non abbiamo notizia di bambini ammalati o morti e per questo non c’è motivo di allarmarsi. I bambini possono stare tranquilli, ma ricevendo costantemente dai media messaggi negativi, loro che hanno molto più pensiero magico che logico, vedono il mondo sotto una cappa nera dove saremo tutti morti. Guardando gli adulti così spaventati, sperimentano una delle regole base della psicologia: un adulto spaventato è un adulto spaventante che aumenta il senso di angoscia, ansia e paura nel mondo interno del bambino. Se gli adulti riescono a ridimensionare, ovvero “mettere nella giusta dimensione” senza negare le cose, i bambini ne beneficiano. L’aspetto paradossale è che mentre in tutto il mondo parlano di coronavirus, se i bambini provano a fare qualche domanda gli adulti minimizzano. Questo significa lasciarli soli: bisogna imparare a parlare delle cose difficili e faticose da comprendere per i bambini nella loro reale entità: questa è una nostra responsabilità educativa. Ai bambini va detta la verità, a loro misura, ma la verità».
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