Salute 6 Aprile 2020 17:18

Coronavirus in Calabria, Cimo: «Poco personale e strutture inadeguate, se numeri aumentano sarà crisi»

Il Segretario del sindacato Giorgio Ferrara: «Mancano anche tamponi e dispositivi di protezione individuale. Per ora sopravviviamo, ma se dovessero verificarsi picchi come successo al Nord, non riusciremmo a reggere»

Coronavirus in Calabria, Cimo: «Poco personale e strutture inadeguate, se numeri aumentano sarà crisi»

Ad oggi, la Calabria è una delle regioni italiane meno colpite dal Coronavirus, con poco più di 800 casi. «E speriamo che le cose restino così – spiega Giorgio Ferrara, segretario regionale di Cimo – perché se dovesse succedere anche qui quel che è successo al Nord non riusciremmo a reggere». La sanità calabra, infatti, è ancora sotto piano di rientro: «Abbiamo un commissario governativo dal 2010, quindi c’è una carenza sia di strutture che di personale e attrezzature». Per non parlare poi del fatto che «ci sono anche due Aziende commissariate per mafia». Esistono comunque tre grandi Hub: Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria. «Qui – spiega Ferrara – abbiamo strutture dotate di quel che serve. Il problema sono gli ospedali periferici in cui, ad esempio, non ci sono reparti di malattie infettive».

Segretario Ferrara, se l’emergenza dovesse spostarsi dal Nord al Sud Italia, la Calabria sarebbe in grado di affrontarla?

«Al momento abbiamo pochi contagiati, quindi possiamo ritenerci fortunati. Devo dire che fino ad un paio di settimane fa ne avevamo addirittura pochissimi e molte delle persone che hanno contratto il virus non erano autoctone ma erano entrate in contatto con nostri concittadini rientrati dal Nord. Un problema è nato, alcuni giorni fa, nelle case di riposo e nelle residenze sanitarie per anziani. Questo ha portato la nostra Governatrice, Jole Santelli, a chiudere ben 15 case di riposo e 16 Comuni. Questi anziani sono stati contagiati ovviamente dagli operatori, che erano entrati in contatto con parenti e amici scesi dal Nord. I pazienti sono stati trasferiti negli Hub mentre il personale è stato messo in quarantena. La maggior parte dei posti disponibili in rianimazione sono stati occupati da questi anziani. In ogni caso, finché restiamo su questi numeri riusciamo a sopravvivere».

LEGGI ANCHE: COVID-19, I SINDACATI DELLA DIRIGENZA MEDICA E SANITARIA PROCLAMANO LO STATO DI AGITAZIONE

Come siete messi a livello di strutture?

«Abbiamo pochi ospedali perché siamo sotto piano di rientro da 10 anni. Sono stati chiusi diversi presidi ospedalieri, prevalentemente quelli periferici, e abbiamo solo 107 posti di terapia intensiva. C’era una ordinanza regionale che prevedeva l’aggiunta di altri 300 posti, soprattutto negli ospedali meno centrali. Questo ha portato un po’ di problemi perché si è cercato di organizzare il tutto con i mezzi che si avevano a disposizione, ma purtroppo non ci si è riusciti. Si aspettavano respiratori e altre apparecchiature ma ne sono arrivati solo 19, quindi siamo passati da 107 a 139 posti di terapia intensiva. Ora, di questi posti ne sono occupati solo una parte. Il problema sta subentrando in due elementi importanti: primo, i tamponi. Abbiamo chiesto, sia come Cimo che come intersindacale, che il tampone venisse fatto a tutti gli operatori sanitari perché siamo proprio noi quelli ad avere più possibilità di contagiarci e diventare, di conseguenza, vettori di infezione. Dopo l’ennesima lettera che abbiamo scritto, il 27 di marzo la Governatrice ha emesso un’ordinanza in cui prevede la tamponatura di tutto il personale sanitario, la quale però è iniziata a macchia di leopardo e solo in alcuni presidi. Secondo problema, i dispositivi di protezione individuale: anche questi sono diffusi a macchia di leopardo. Alcuni presidi, soprattutto i centri Hub, ne sono dotati, mentre gli altri hanno solo mascherine chirurgiche, camici non omologati per il rischio biologico, eccetera. Ripeto, finché restiamo su questi numeri, riusciamo a cavarcela, ma se malauguratamente dovesse avvenire qualcosa di simile a quanto successo al Nord, andremmo veramente in crisi perché non abbiamo le strutture necessarie. Basti pensare che qualche giorno fa ho letto che in provincia di Cosenza, nella parte nord della Calabria, hanno chiuso una rianimazione in un ospedale che, in un primo momento, era stato individuato come sede del reparto Covid. Il primario anestesista si è reso conto che non poteva gestire quel tipo di situazione per carenza di personale e attrezzature, e per questo ha decretato la sua chiusura, con l’avallo del direttore sanitario. Così la fascia tirrenica resta scoperta».

Dunque anche il numero relativo al personale sanitario non è adeguato?

«Come detto, trattandosi di una Regione commissariata, non si fanno concorsi da tempo. Oltre a ciò, Quota 100 ha portato la maggior parte dei colleghi che ne aveva i requisiti ad andare in pensione. C’è stata dunque una riduzione notevolissima e il personale è ridotto veramente allo stremo. Ci sono pochissimi medici e infermieri. È stato fatto qualche concorso negli anni passati, ma solo per infermieri e OSS, e comunque in numero veramente irrisorio, minimo, rispetto alle necessità. Per quanto riguarda i medici, ricordo che è stato fatto qualche concorso nell’ambito del reparto dell’emergenza, quindi medici di pronto soccorso, ma sono andati deserti perché i carichi di lavoro, ora che il personale è diminuito così tanto, sono enormi, e chi può va a fare qualcos’altro, di certo non si mette a lavorare in un reparto di prima linea come anestesia, rianimazione, pronto soccorso e 118».

Cosa si sta facendo in regione per risolvere questi problemi?

«La Protezione Civile ha costruito le tende in cui fare pre-triage, in cui il paziente dovrebbe passare per poi accedere al pronto soccorso, ma la maggior parte di queste tende, che sono state montate un po’ in tutti i presidi, sono prive delle attrezzature e ancora non si sa chi deve gestirle. Qualcuna di queste postazioni ora è funzionante e ci lavorano Protezione Civile e Croce Rossa, altre sono gestite da personale medico e infermieristico che fa parte del pronto soccorso. Ce ne sono poi molte altre che non sono attive. Ho letto qualche giorno fa che due di queste tende erano state montate una sul lato tirrenico, l’altra in montagna. Bene, la prima è stata spazzata via dal vento e l’altra è crollata per neve. In sostanza, dunque, con queste tende filtriamo ben poco e non si è riuscito a creare dei veri e propri percorsi per evitare che il paziente giungesse in pronto soccorso passando per la tenda, evitando quindi di inquinare gli altri ambienti. Qualcuna di queste strutture però funziona, soprattutto nei centri Hub. La Governatrice ha fatto una nuova ordinanza con cui ha bloccato quanto deciso in precedenza, ovvero di creare questi centri Covid negli ospedali periferici, attraverso un’ordinanza in cui concentra tutti i pazienti positivi nei centri Hub, ovvero nei tre ospedali più grossi della regione, in cui c’è tutto. Se poi i posti non dovessero bastare si può eccedere negli ospedali periferici ma, ripeto, anche se sono già costituiti e organizzati, sono privi delle attrezzature necessarie».

Abbiamo parlato delle carenze nelle strutture e nel personale. Per quanto riguarda, invece, i dispositivi di protezione individuale?

«Sono un altro importante problema. Ne stanno arrivando pochi, così in tanti usano mascherine chirurgiche, invece delle FFP2 e FFP3, e se le tengono per più giorni. Mi hanno chiamato diversi colleghi degli ambulatori: hanno un’unica mascherina e la continuano ad indossare in attesa delle nuove. È successo anche che qualche privato ha consegnato apparecchiature, come ad esempio ha fatto un’azienda che ha regalato due respiratori automatici. Ci sono anche ditte che ci hanno portato delle mascherine, ma qui è subentrata una nuova questione: esistono dei problemi di tipo medico-legale nel momento in cui un operatore si contagia e va sotto infortunio Inail. Il datore di lavoro lo potrebbe accusare di non aver usato uno strumento protocollato secondo quelli che sono i criteri ufficiali. Per cui adesso i colleghi li stanno usando solo ed esclusivamente in casi di estrema necessità, proprio per evitare questi problemi. Qualche giorno fa, ad esempio, mi ha contattato un collega che mi ha parlato dell’esistenza di una nota in cui si consiglia di utilizzare dispositivi di protezione individuale solo in caso di contagio sospetto o accertato, e non in altre situazioni. Il problema, dunque, nasce quando in un pronto soccorso si presenta un paziente che ha febbre, tosse ma che non necessariamente è affetto da Covid. Come ci si veste? Con o senza mascherina, con o senza camice? C’è una forma di disorganizzazione che, d’altronde, esiste un po’ in tutte le Regioni».

 

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