Spossatezza e sfiducia nelle regole, nella seconda ondata tanti sentono la pandemic fatigue. Cosa succede nel nostro cervello? Il professor Vitiello (coordinatore “Lavoro” OdP Lazio) spiega come contrastarla
Stanchezza, sfiducia e svogliatezza nel rispetto delle regole. Se anche voi vi siete sentiti così e avete cercato di trovare un nome a questa sensazione, ora c’è. Si chiama “pandemic fatigue” e l’Organizzazione mondiale della Sanità la definisce «la tendenza a sentirsi demotivati nel seguire i comportamenti raccomandati per proteggere sé stessi e gli altri dal virus Sars-CoV-2». In una recente conferenza Hans Kluge, direttore Oms per la regione europea, ha annunciato che oltre il 60% degli europei ne soffre al momento. E sta diventando un problema per la gestione della salute pubblica in questo momento di crisi.
Ma come si riconosce la pandemic fatigue e c’è un modo per contrastarla? Sanità Informazione lo ha chiesto al professor Marco Vitiello, psicologo del lavoro e delle organizzazioni e coordinatore “Lavoro” per l’Ordine degli psicologi del Lazio.
«Nella stessa definizione – spiega – c’è il termine “fatica” che funziona sia sul campo fisico che mentale». Il meccanismo che si attua nel nostro cervello, durante la convivenza prolungata con questa emergenza sanitaria, trasmette una sensazione di sconfitta che distrae dall’impegno necessario contro il contagio e affatica anche fisicamente. «La nostra psiche può generare delle sostanze che hanno un effetto fisiologico sul nostro corpo. La melatonina e il cortisolo ad esempio: la prima che porta a spossatezza e appesantimento fisico e il secondo che invece induce l’eccessivo stress», analizza tecnicamente l’esperto.
«L’esplosione di queste due polarità genera quasi un burnout proprio perché non è possibile vedere un orizzonte chiaro di miglioramento di questa situazione», aggiunge. La pandemic fatigue dunque, dipende più di tutto dal tempo. Un valore a cui la modernità ci ha abituato a dare il massimo peso e che adesso ci scorre davanti lasciandoci impotenti, tra quarantene e isolamenti. Un’esposizione prolungata sconfigge anche la paura. Quella che la professoressa Cornelia Betsch dell’università di Erfurt in Germania descrive come il principale motivatore al comportamento protettivo. Ma «la paura si cancella quando la popolazione si abitua alla minaccia e si ripetono le stesse abitudini nel tempo», è chiarito sul sito Oms.
«La seconda ondata ha risvegliato questo meccanismo – insiste Vitiello – che le riaperture estive avevano sopito, e qui c’è stato lo “schianto” per molti». Su ognuno di noi, infatti, ha effetto la difficoltà in cui si trova di nuovo il sistema sanitario che preannuncia una situazione già vista. «Le persone, anche se non provano più lo stesso stress di prima, come in sovra-apprendimento sanno già a cosa questo porta e sentono gli effetti psichici ancora prima che arrivi il pericolo vero e proprio», spiega ancora. I casi di positività sempre più vicino casa, la mancanza di zone più a rischio di altre, e lo «slalom continuo tra isolamenti fiduciari e quarantene imposte dal lavoro e dalle scuole dei figli» innescano il processo mentale.
Potrebbe la pandemic fatigue e la relativa “stanchezza da misure restrittive” aver portato al rialzo dei contagi? Su questo Vitiello è cauto, specifica che non c’è mai una sola causa per una conseguenza così grande. «Di certo però l’affaticamento generale ha avvicinato molti più soggetti a posizioni fataliste o addirittura negazioniste», specifica.
«Esiste una dimensione dentro di noi, di nome locus of control, che stabilisce come siamo posizionati rispetto all’incidenza che possiamo avere sugli accadimenti. In questo momento chi aveva maggiormente il controllo sul futuro e sugli eventi sente che quell’atteggiamento non è corrisposto dalle cose che accadono, si sente in balia degli eventi» e si rompe.
Ci sono categorie più esposte di altre alla pandemic fatigue e, spesso, sono le più vicine al problema. Chi affronta il virus in prima linea e non si sente aiutato da chi cerca di aiutare, sente l’impotenza e la paura contemporaneamente. «Come fascia di età sicuramente soffre quella tra i 35 e i 55 anni, che è contemporaneamente genitore e figlio, e sente il peso di dover proteggere e tranquillizzare tutti senza sapere come», approfondisce Vitiello.
C’è un modo per contrastare questa diffusa problematica? «Bisogna sfidarsi a mantenere alta la soglia dell’attenzione – insiste il professore – e crearsi delle piccole progettualità realizzabili con queste nuove regole. Inseguire nuovi spunti e tornare ad avere una propensione per il futuro. Così fa quel 40% di europei che non vive la pandemic fatigue. Non si fermano e provano a guardare oltre». Il consulto psicologico, inoltre, deve essere una soluzione a cui ricorrere, anche con le limitazioni. Le tele-sedute funzionano e fanno sentire meno soli.
Ai governi di un’Europa penalizzata dal suo stesso benessere, che ora non sa come affrontare una difficoltà inattesa, la raccomandazione da dare è quella di «coinvolgere i cittadini». «Le nuove strategie – conclude Vitiello – possono e devono essere condivise. Con numeri di difficoltà psicologiche così grandi i piccoli esempi e le isole felici non bastano più. Bisogna tornare a sentirsi una comunità che lavora per un obbiettivo comune. La voglia di partecipazione e quella di aiutare combattono per definizione sfiducia e spossatezza».
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