Antonio Clavenna, Direttore del Dipartimento Salute Pubblica dell’Istituto Mario Negri, spiega: «Noi facciamo ricerca di base, stiamo lavorando sul recettore ACE 2 che è quello attraverso cui il virus entra nelle cellule». Sull’andamento della curva non si sbilancia: «I dati sono poco leggibili, ci sono troppe persone in casa a cui non viene fatto il tampone»
«La situazione epidemiologica di ciascuna regione è differente per cui è un’ipotesi molto sensata quella di far ripartire prima le regioni in cui la situazione già adesso è in miglioramento». Antonio Clavenna, Direttore del Dipartimento Salute Pubblica dell’Istituto Mario Negri, sposa l’idea di una ripartenza differenziata da regione a regione non appena le condizioni lo permetteranno.
Resta però ancora un rebus capire quando si potrà allentare il lockdown. «I dati ad oggi disponibili sono abbastanza poco leggibili» sottolinea a Sanità Informazione. Il perché è presto detto: «I dati sono quelli dei pazienti che sono ricoverati in ospedale con sintomi respiratori importanti – spiega -. C’è il problema della distanza di tempo tra l’effettuazione del tampone e la registrazione del dato, per cui oggi abbiamo dei casi positivi che in realtà sono dei casi positivi osservati alcuni giorni fa. Questo rende un po’ difficile la lettura della situazione, anche perché sfugge tutta la parte che non è in ospedale. Abbiamo ancora molte persone a casa a cui non viene fatto il tampone. Ci attendiamo che l’andamento di questi nuovi contagi sia simile a quello dei ricoverati in ospedale, ma è un dato che non è disponibile, per cui è ancora presto per capire qual è l’andamento della curva. Ci sono dei segnali positivi, ma è difficile dire oggi quando la prima ondata epidemica si andrà ad esaurire».
Sebbene gli esperti siano divisi su questo punto, Clavenna promuove una ripartenza differenziata tra i territori, partendo da quelli meno coinvolti dall’epidemia: «Queste regioni potrebbero funzionare un po’ da modello per capire se ci sarà una seconda ondata e su come gestirla».
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Il Mario Negri è in prima linea anche nella ricerca farmacologica, anche se per ora non si sta lavorando su farmaci specifici ma su ricerca di base. «Presso l’Istituto ci sono alcuni studi in corso, prevalentemente di ricerca di base con sbocchi diversi e soprattutto tempistiche diverse per la parte clinica – continua Clavenna -. Si sta cercando di capire soprattutto potenziali bersagli terapeutici, in particolare lavorando sul recettore ACE 2 che è quello attraverso cui il virus entra nelle cellule, quindi i meccanismi legati all’ingresso cellulare. L’altro ambito di ricerca è quello dell’infiammazione, per cui capire in che modo è possibile ridurre la risposta infiammatoria che in alcuni pazienti crea danni sia ai polmoni che a cuore e rene, che poi sono anche i due ambiti su cui è in corso la ricerca in Italia».
Secondo Clavenna, ma è l’opinione di gran parte della comunità scientifica italiana, sono due i farmaci più promettenti in questo momento: l’antivirale Remdesivir e l’anti artrite Tocilizumab. «Guardando un po’ i dati, ma le evidenze sono ancora poche, c’è grande attesa su un paio di farmaci: il Remdesivir, un nuovo antivirale che è stato studiato per l’ebola in quel caso non con grande successo, e il Tocilizumab, un farmaco antinfiammatorio anti-interleuchina 6. Le attese tra i due sono diverse: ovviamente il Remdesivir, in quanto antivirale, potrebbe avere dei benefici sulla riduzione della durata della malattia; gli antinfiammatori invece possono ridurre i rischi per le persone che già hanno una situazione di sintomi gravi e con difficoltà respiratorie».
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Più complessa invece la posizione sull’idrossiclorochina, farmaco che ha acceso l’interesse persino del presidente USA Donald Trump: «Su questo farmaco oggi ci sono dei dati un po’ contrastanti. Uno studio è stato fatto in Cina e uno in Francia, che pur con tutta una serie di limiti hanno prodotto dei risultati incoraggianti. Però questi risultati incoraggianti non sembrano confermati da altre esperienze. È ancora presto per esprimersi. L’idrossiclorochina viene utilizzata anche in Italia, ma i dati che abbiamo non sono così chiari, così come mancano per l’uso come profilassi che è una delle ipotesi che vengono perseguite».
Infine il tema che sta dividendo gli scienziati di mezzo mondo: l’uso delle mascherine è utile e va reso obbligatorio oppure no? La risposta della scienza non è unanime perché non ci sono evidenze scientifiche. «Ci sono alcuni studi che sembrano indicare una certa efficacia e utilità, mentre altri studi che sembrano indicare che non sono utili per ridurre la diffusione del virus – spiega il Direttore del Dipartimento Salute Pubblica dell’Istituto Mario Negri -. Al di là di questo, anche nell’incertezza si può seguire un principio di precauzione e suggerirne l’uso come fatto dagli Usa o dall’ECDC in Europa. Il problema non è raccomandare l’uso delle mascherine, il problema è raccomandarlo in una maniera corretta. Ma se si vogliono raccomandare devono essere disponibili per tutta la popolazione in una quantità sufficiente, e ancora prima per gli operatori sanitari, per i pazienti e per chi assiste i pazienti. Dopodiché occorre chiarire che la mascherina è un intervento in più che può avere una certa utilità, ma i cardini sono la distanza sociale, per cui mantenere il metro o ancora meglio i due metri di distanza, le norme igieniche come la pulizia delle mani, evitare di toccare naso, bocca, occhi e così via. E far capire alle persone qual è la modalità corretta per indossarle, per tenerle, per toglierle e per smaltirle. Perché se non c’è questa informazione ed educazione e se non c’è la possibilità per tutti di usarle in maniera corretta, la mascherina rischia di diventare un potenziale veicolo di contagio e rischia di dare un falso senso di sicurezza».
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