Secondo il Segretario Generale dell’Associazione Unitaria Psicologi Italiani, gli stanziamenti previsti per gli psicologi nel Decreto Sostegni bis sono «una buona notizia ma rappresentano interventi parziali»
Che la pandemia da Covid-19 sia un’emergenza psicologica oltre che sanitaria ormai è chiaro a tutti. Dai professionisti della sanità, che hanno dovuto affrontare turni massacranti, timori e responsabilità enormi, a tutti quei lavoratori andati in cassa integrazione e agli imprenditori che hanno chiuso baracca fino ad arrivare ai giovani, costretti a mesi e mesi di Didattica a distanza.
E proprio perché il supporto psicologico verso chiunque abbia risentito pesantemente degli “effetti collaterali” della pandemia è fondamentale, nel Dl Sostegni bis approvato ieri alla Camera sono contenute alcune voci di spesa sul tema: una dotazione di 10 milioni di euro per il 2021 destinato alla promozione del benessere della persona facilitando l’accesso ai servizi psicologici delle fasce più deboli della popolazione, con priorità per i pazienti affetti da patologie oncologiche ed i ragazzi in età scolare; un’altra di 8 milioni di euro per il potenziamento dell’area territoriale ed ospedaliera della Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza; una terza di poco più di 19 milioni per assicurare le prestazioni psicologiche, anche domiciliari, a cittadini, minori ed operatori sanitari, nonché di garantire le attività previste dai livelli essenziali di assistenza.
Ma queste risorse sono sufficienti? Bastano per risolvere i problemi psicologici derivanti da un anno e mezzo di pandemia? Lo abbiamo chiesto a Mario Sellini, Segretario Generale di AUPI (Associazione Unitaria Psicologi Italiani).
«Alcune di queste voci erano già state inserite dal Governo nel Decreto legge. Altre si sono aggiunte nel corso del dibattito parlamentare attraverso emendamenti che sono stati presentati e approvati. Senza dubbio è un fatto positivo ma gli interventi sono assolutamente parziali e non strutturali. Non ci troviamo più in un’emergenza, almeno per quanto riguarda i risvolti psicologici. Per questo servirebbero provvedimenti che guardano al medio e lungo termine. Certo, bisogna fare i conti con le risorse disponibili, ma se parliamo di scuola, i 10 milioni stanziati sono veramente, ma veramente molto pochi. L’anno scorso, per dire, con la finanziaria furono stanziati un bel po’ di soldi in più che sono serviti ad attivare punti di ascolto in un numero significativo di scuole: parliamo di circa 6mila strutture su 8mila. E adesso che il problema della scuola sta emergendo in tutta la sua gravità e sui media si discute dei pessimi risultati ottenuti dagli studenti nei test Invalsi e degli effetti negativi della Dad, a maggior ragione il problema è ancora più evidente».
«Assolutamente sì ma esiste anche un errore di fondo nella valutazione degli effetti del Covid sulla scuola e sul rendimento degli alunni: in realtà secondo noi non è tanto la Dad ad essere sbagliata, perché come ogni strumento può certamente creare dei problemi, ma dipende dal modo in cui viene utilizzato. Ciò di cui non si è tenuto conto è l’enorme disagio che hanno vissuto milioni di ragazzi che hanno avuto in qualche modo a che fare con tutti quei milioni di ammalati che sono stati tenuti in quarantena in casa. Nessuno si è posto il problema di come i bambini e i ragazzi potessero vivere con la Dad da una parte e con familiari ammalati dall’altra. Questi hanno subito certamente i danni peggiori e la loro resa scolastica ne ha senza dubbio risentito. Basta immaginare un ragazzo, un adolescente, che vive in famiglia e sente parlare gli adulti. Noi immaginiamo che i bambini non ascoltino, che i ragazzi vivano in un mondo tutto loro e non si rendano conto di ciò che accade intorno. Ma i bambini in realtà sono delle spugne che assorbono tutto quel che gira nell’ambiente familiare. Le preoccupazioni degli adulti, soprattutto quelle della primissima fase della pandemia, sono state assorbite per intero da ragazzi e bambini. Poi è chiaro che la situazione di quarantena, il non poter uscire, il non poter andare a scuola, ha influito su tutti, ma è un’influenza negativa minore rispetto a quel che hanno subito i familiari di uno o più degli oltre 120mila deceduti. Chi si è fatto carico dei problemi di questi giovani? Nessuno. È chiaro che il rendimento scolastico, per forza di cose, ne risenta. I risultati confermano questo».
«Come detto prima, qui non si tratta più di fronteggiare un’emergenza. Qui siamo di fronte ad un problema che produrrà i propri effetti nel corso degli anni. Non parliamo di aver perso uno o due anni scolastici. Qui ci troviamo con una generazione intera, non tutti ovviamente ma la stragrande maggioranza, che va recuperata dal punto di vista didattico, almeno per quel che è possibile fare. Almeno per quanto riguarda chi frequenta ancora la scuola. Per i maturati, invece, bisogna inventarsi qualcos’altro per recuperare ciò che hanno perso per strada. Bisogna capire che qui il dato è drammatico: dire che una persona che prende la maturità oggi ha le competenze di chi ha appena finito la terza media è un qualcosa di molto pesante. Non si tratta più di aver perso due anni scolastici. Qui si tratta di esser tornati cinque anni indietro».
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