Sanità 8 Maggio 2020 16:59

Covid-19, Giordano (Temple University): «Lavoriamo per capire variabilità malattia. Importante approfondire ruolo inquinamento»

Il ricercatore napoletano, direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research della Temple University di Philadelphia, commenta anche la ricerca sul plasma: «È promettente ma presenta dei limiti». Speranze dagli anticorpi monoclonali: «Sono in grado di contrastare l’eccessiva risposta infiammatoria scatenata dal virus»

Covid-19, Giordano (Temple University): «Lavoriamo per capire variabilità malattia. Importante approfondire ruolo inquinamento»

«La cura con il plasma è promettente anche se presenta dei limiti. In tutti i casi va bene per la cura dei pazienti ma puntiamo sul vaccino per offrire una copertura duratura». A parlare è Antonio Giordano, ricercatore napoletano di fama mondiale e direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine della Temple University di Philadelphia. Oggi anche Giordano è in prima linea nella lotta al Covid e con il suo team ha avviato una ricerca per indagare la risposta immune che il virus scatena nei pazienti infetti: meccanismi che, se

individuati, aiuterebbero a capire perché è così eterogenea la gravità dell’infezione. Da anni Giordano si occupa della ricerca sul cancro: lo scorso anno il suo team ha scoperto il ruolo decisivo di una proteina, HNRNPD, nella regolazione dell’espressione genica, cioè quel cammino che dal gene porta alla produzione della proteina corrispondente che ha in realtà un compito fondamentale nel prevenire l’accumulo di mutazioni e l’insorgenza di malattie come il cancro. Ora anche lui si inserisce nello sforzo globale per contrastare il Sars-Cov-2. E a Sanità Informazione dice: «Sono importanti gli studi che cercano una correlazione tra Covid-19 e inquinamento atmosferico. Ricercare la presenza del virus nel particolato sarà utile per comprendere la diffusione e, magari, gestire meglio la fase 2».

Professore, qual è in questo momento la situazione negli USA e nello Stato dove lavora?

«Il contagio interessa tutti gli Stati americani anche se il trend non è omogeneo. I tassi di infezione stanno calando a New York e in New Jersey, ma rimane lo stato di calamità su tutto il territorio nazionale. Abbiamo raggiunto un milione di infetti. Con modalità eterogenee proseguono le misure adottate dai singoli governatori dei vari Stati: alcuni accelerano le riaperture mentre altri sono più prudenti sull’allentamento del lockdown. In generale, gli Stati Uniti stanno cercando di contenere l’epidemia di coronavirus attuando ampie restrizioni su ogni aspetto della vita pubblica, adottando misure drastiche e ponendo una stretta a livello federale. L’amministrazione Trump sta valutando una proposta di intervento di circa 850 miliardi di dollari per offrire un sostegno diretto ai cittadini e all’economia. Credo che si debba continuare ad attuare la massima prevenzione ovunque. Solo uno sforzo univoco e globale potrà influire ad accelerare la risoluzione della pandemia».

In Italia si sta parlando molto della terapia con il plasma. Che idea si è fatto?

«La terapia con il plasma iperimmune è sicuramente promettente. Non si tratta di una scoperta recente dal momento che questo tipo di terapia viene utilizzato da anni. Tuttavia, pur mostrando effetti positivi, presenta dei limiti. Il plasma è una cura che va bene per curare l’ammalato e, quindi, esaurisce il suo ruolo una volta che il paziente è guarito. Il vaccino, invece, dovrebbe offrire una copertura duratura (si spera per sempre). Inoltre, prelevare il plasma da un ammalato richiede procedure specifiche di controllo e analisi necessari prima del suo utilizzo. Si tratta di un processo che richiede costi abbastanza elevati anche rispetto ad un così grande numero di pazienti. Concludendo, questa terapia è sicuramente utile per curare gli ammalati di Covid-19, il che non significa rinunciare a valutare altre strategie terapeutiche che necessitano di processi meno laboriosi per essere somministrate».

Uno studio di Harvard (ma non solo) ha messo in relazione l’aumento di casi di Covid con l’inquinamento. Secondo lei è un tema da approfondire?

«L’inquinamento atmosferico è una delle principali cause delle malattie respiratorie al mondo; per questo diversi ricercatori negli ultimi mesi hanno avviato studi per capire se ci possa essere un legame tra scarsa qualità dell’aria e il Covid-19. La possibile interazione è anche suggerita dal fatto che l’esposizione all’inquinamento atmosferico aumenta il rischio di patologie respiratorie. Uno di questi studi è stato condotto dai ricercatori di Harvard che hanno indagato la relazione tra esposizione a lungo termine a PM 2.5 e il rischio di morte Covid-19 negli Stati Uniti. Lo studio dimostra un eccesso di mortalità in zone in cui era più alta la concentrazione di PM 2.5. Tuttavia, data la necessità di ottenere indicazioni in tempi brevi, altri fattori che avrebbero potuto influire su tale tasso di mortalità sono stati trascurati. Sicuramente è fondamentale continuare ad indagare in questa direzione, raccogliendo in modo adeguato dati sanitari, informazioni ambientali e demografiche utili a studiare le possibili associazioni tra inquinamento e diffusione di Covid-19. Ricercare la presenza del virus nel particolato sarà utile per comprendere la diffusione e, magari, gestire meglio la fase 2. In molti Paesi si sta avvicinando questa fase e molte attività riapriranno presto; purtroppo al momento, non è possibile escludere possibili ricadute dell’epidemia. La disponibilità di possibili indicatori predittivi precoci di future ricadute epidemiche sarebbe molto utile».

Lei ha annunciato che sta portando avanti un progetto sullo studio del meccanismo di azione del coronavirus di prossima pubblicazione. Ci può anticipare qualcosa?

«Il virus Sars-CoV-2 è molto giovane, per cui è fondamentale studiare la sua biologia, le sue modalità di replicazione per poter identificare cure mirate, ma allo stesso tempo è necessario indagare la risposta immune che esso scatena nei pazienti infetti. Comprendere tutti questi meccanismi aiuterebbe a capire anche perché è così eterogenea la gravità dell’infezione: può essere grave da causare la morte, lieve da sembrare una comune influenza stagionale e, addirittura, non mostrare nessun segno clinico. Pertanto, stiamo cercando di capire quando induce una sindrome respiratoria acuta grave e come intervenire ai primi sintomi».

Si parla tanto di vaccino. Secondo lei quanto tempo ci vorrà per averne uno efficace?

«Sia che si tratti di un vaccino sia che si cerchi un farmaco specifico sono necessari tempi più o meno lunghi per garantire la sicurezza e l’efficacia di questi trattamenti. Più dettagliatamente, per poter parlare di vaccino, poi, abbiamo bisogno di sapere se le persone guarite sviluppino anticorpi diretti anti SARS-CoV-2 e se questi siano in grado di bloccare il contagio. Per farlo è quindi necessaria la sperimentazione animale e tutta la fase pre-clinica e clinica. Per il vaccino sono in corso strategie molto promettenti: una società cinese ha portato un candidato vaccino in fase 2 (sugli uomini per testarne l’efficacia) e una società americana ha portato una differente strategia in fase 1. Entrambe le società hanno raggiunto un obiettivo importante in tempi davvero molto rapidi. Ma sono in fase di sperimentazione anche alcuni antivirali o anticorpi monoclonali, questi ultimi pur essendo off-label, che cioè non hanno alcun effetto sul virus, sono in grado di contrastare l’eccessiva risposta infiammatoria scatenata dal virus. Alla Temple University è in corso un trial clinico per testare l’efficacia di un anticorpo monoclonale, Gimsilumab, e sono stati arruolati già circa 200 pazienti. Con la dovuta cautela possiamo affermare che si iniziano a vedere i primi risultati positivi».

 

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