Molti pazienti invitati a rimanere a casa per evitare il contagio, ma la sospensione delle terapie non è sostenibile a lungo. Elisabetta Iannelli, Segretario generale della Federazione Italiana delle Associazioni di volontariato in Oncologia: «Spesso i malati si sono sentiti abbandonati a se stessi»
C’è chi ha parlato di una specie di ‘limbo’, chi di ‘tempo sospeso’. I malati oncologici si trovano ad affrontare spesso un dramma nel dramma: alle preoccupazioni per il loro stato di salute si sommano quelle per l’epidemia di Covid-19 che li vede tra i più esposti: secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, circa il 20% dei decessi per Covid-19 si registra in persone con una diagnosi di tumore nei cinque anni precedenti. Ma non basta: molti pazienti sono stati invitati, spesso, a sospendere le terapie per evitare il rischio contagio, cosa che spesso è stato costretto a fare chi deve recarsi fuori regione.
«Spesso il paziente si è sentito un po’ abbandonato a se stesso, soprattutto in alcune parti del territorio – spiega Elisabetta Iannelli, Segretario generale FAVO, Federazione Italiana delle Associazioni di volontariato in Oncologia -. C’è da dire anche che in alcuni casi all’inizio non è stata molto compresa l’indicazione di rinviare ove possibile la terapia, la visita o l’esame diagnostico. È stato necessario far comprendere che era una cautela in più, non un disinteresse da parte delle strutture oncologiche».
«La situazione Covid – continua Iannelli – va a sommarsi a motivi di preoccupazione preesistenti che non sono di poco conto. In aggiunta c’è la preoccupazione di essere tra i soggetti più a rischio. Una condizione di maggiore fragilità. A questo si aggiungono le difficoltà legate alla possibilità di continuare le terapie, i controlli, avere un filo diretto con l’oncologo, il medico di fiducia, tutto ben sapendo che la prima medicina per il momento è stare a casa, evitare qualsiasi condizione di rischio. Gli stessi ospedali sono i luoghi maggiormente a rischio contagio».
Tuttavia, ci sono anche delle buone pratiche, avviate per far fronte all’emergenza, che potrebbero essere in futuro rese permanenti: «La soluzione migliore sarebbe una maggiore efficienza della rete territoriale in modo che la presa in carico sia vicino al domicilio del paziente senza necessità di spostarsi – continua il Segretario generale FAVO -. Abbiamo visto che in alcuni ospedali sono stati organizzati teleconsulti, un sostegno psicologico a distanza, la possibilità di avere le medicine a domicilio (penso a terapie oncologiche orali che non richiedono la somministrazione in ospedale ma richiedono la consegna del farmaco in ospedale e poi l’assunzione a domicilio). Questo tipo di iniziative evitano di doversi recare in ospedale. Il problema in questo momento è il passaggio dalla fase 1, che è piena emergenza, dove tutto si è in qualche misura fermato, alla fase 2: se è vero che per una malattia oncologica si può gestire un mese di sospensione delle terapie, il prolungarsi di questa condizione deve necessariamente trovare altre risposte, perché altrimenti la bilancia del rischio ritorna sul fronte oncologico, rispetto a quello Covid-19. Servono percorsi protetti nei reparti oncologici che limitino al massimo il rischio di contagio».
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La FAVO in queste settimane si è molto spesa per iniziative volte a sensibilizzare le istituzioni a prendersi cura di questa particolare categoria di malati. Il Decreto Cura Italia prevede una tutela rafforzata per i lavoratori che presentino “una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita”, consistente nell’equiparazione al ricovero ospedaliero del periodo di assenza dal lavoro finalizzato ad evitare il contagio da Covid-19. Ma la burocrazia rischia di minare questa possibilità: «Il problema – spiega Iannelli – è che per poter ottenere questo tipo di riconoscimento che consente di assentarsi dal lavoro senza perdere la retribuzione attualmente è richiesta una doppia certificazione che rende di fatto impossibile la fruizione di questo beneficio perché bisognerebbe rivolgersi al medico legale delle Asl, e questo non è attualmente possibile, o al medico aziendale o al medico di base. La semplificazione potrebbe avvenire attraverso una semplice certificazione del medico di base che è il primo referente che conosce la storia clinica del paziente. Se questo non è possibile, perché si tratta di una attestazione del rischio e non di una attestazione di una condizione di malattia, abbiamo chiesto anche che sia lo stesso paziente ad autocertificare la condizione di malato oncologico e quindi in qualche modo giustificare l’impossibilità di recarsi al lavoro. È indubbiamente una richiesta importante, ma è anche vero che in un momento di emergenza dove sono saltati tutti gli equilibri trova una sua giustificazione. La soluzione deve essere orientata alla maggiore tutela possibile della salute di persone che sono in condizione già di fragilità per la malattia oncologica».
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