Il Presidente dell’Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale: «E’ stato un errore pensare di combattere il virus solo in ospedale»
Una strage silenziosa, quella che ha interessato le Residenze Sanitarie Assistenziali italiane nell’ultimo mese e mezzo. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità sono oltre 7mila le morti che si sono verificate nelle Rsa e, di queste, il 40% sono riferibili a infezione da Coronavirus. In particolare, sotto accusa è finita Regione Lombardia, dove si sono registrati 1.600 decessi. La magistratura indaga, si cerca un colpevole e delle risposte da dare ai famigliari. Per l’avvocato Luca Degani, presidente di UNEBA Lombardia (Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale) è importante fare chiarezza: «È brutto dirlo ma in tutta Italia, non solo in Lombardia, per un mese e mezzo, quasi due, c’è stata l’idea che il Covid-19 dovesse essere combattuto in ospedale. In realtà il virus è da prevenire, oltre che affrontare, negli ambienti di vita delle persone a maggior rischio. Anziani, non autosufficienti e coloro che vivono con loro».
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Sono stati commessi degli errori secondo lei?
«Credo che il vero errore sia stato ragionare per luoghi e non per persone, ragionare dell’idea di dove si cura il Covid-19 e non di dove vivono i soggetti più a rischio e cosa si deve fare per prevenire l’infezione. Da questo punto di vista, e lo dico perché si può ancora migliorare, i tamponi agli anziani, ma anche la distribuzione dei dispositivi di protezione individuale,sono stati fino a pochi giorni fa appannaggio delle realtà ospedaliere e non delle realtà sociosanitarie. Ma mentre i tamponi sono nella titolarità e nella politica del sistema regionale, la distribuzione delle protezioni individuali è dello Stato e nella titolarità della Protezione civile. Questa famosa delibera che è ormai agli onori delle cronache, la 2906 di Regione Lombardia, non credo fosse fatta da “disgraziati”: era una delibera fatta ripensando l’ospedale e a come deflazionarlo, e quindi scrivere, più o meno bene, che in quel luogo extraospedaliero, che è la RSA, si sarebbero dovute trovare strutture autonome dal punto di vista organizzativo, gestionale e strutturale. Non penso che questo sia accaduto granché, perché posso assicurare che nelle realtà che afferiscono al mondo di UNEBA, e sono 400, si è evitato il più possibile di avvicinare un fattore di rischio a una popolazione a rischio».
Quindi, per evitare che ci possano essere altri focolai, cosa bisogna cambiare nelle RSA?
«Per quanto riguarda le RSA, occorre una grandissima attenzione alla formazione, ma soprattutto la fornitura di dispositivi di protezione e di tamponi a tutto il personale. Poi la possibilità di tamponare tutti gli ospiti delle RSA, visto che è stata fatta la scelta di non consentire loro l’accesso ospedaliero. Bisogna suddividere le persone delle RSA così che le infezioni non aumentino e poi attuare bene le delibere. Le strutture della rete ospedaliera mettano poi a disposizione infettivologi, specialisti polmonari e tutte quelle specialità che possono prendersi carico delle acuzie e le portino nelle strutture sociosanitarie per anziani e disabili. Rinforziamo un luogo di cura per le malattie croniche, e se questo luogo deve prendersi in carico anche bisogni acuti, diamogli i necessari specialisti ospedalieri e facciamo collaborare coloro che sanno garantire la salute ad un malato cronico con coloro i quali invece sanno agire sulle acuzie. Sento ogni giorno che diminuiscono i bisogni nelle terapie intensive. Mi auguro che quei professionisti vengano trasferiti da un sistema che opera in maniera omogenea presso le RSA. Questo credo sia importante».
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