Intervista a Stefano Vella dell’Università Cattolica di Roma: «Pandemia dichiarata colpevolmente in ritardo, ci siamo fidati della SARS. Testare tutti è impossibile, dobbiamo raggiungere una copertura immunitaria così grande da creare il deserto intorno al virus, attaccandolo con tutti gli strumenti possibili contemporaneamente in tutto il mondo»
«Siamo ricercatori che hanno lunga esperienza con la prevenzione dell’HIV/AIDS, in termini di vaccini e terapie; e alcuni di noi hanno anche esperienza con Ebola. Crediamo che sia veramente importante costruire la nostra risposta alla pandemia da Covid-19 sulle lezioni apprese dalle pandemie di HIV e dai recenti casi di Ebola». Comincia così una lettera firmata da 10 clinici e apparsa sul prestigioso New England Journal of Medicine. Il SARS–CoV–2 che è responsabile dell’attuale fase pandemica è pericoloso, insidioso e sta cambiando il volto del pianeta; ma a parte questo rimane un virus e non è il primo virus contro cui l’umanità si trova a lottare. Qualcosa, dicono i ricercatori del NEJM, dalle precedenti esperienze possiamo mettere a frutto. In questi termini abbiamo in effetti discusso con Stefano Vella, infettivologo, docente di Salute Globale e già direttore del Centro per la Salute Globale all’Istituto Superiore di Sanità di Roma, uno dei principali esperti di HIV/AIDS in Italia.
«Possiamo iniziare dicendo che anche l’epidemia da HIV deriva da un salto di specie che il virus ha fatto quasi un secolo fa, dalle scimmie. Per questo io penso ci sia stato un colpevole ritardo nella dichiarazione della pandemia, scoppiata a gennaio e ufficializzata a marzo: per chi doveva capire, per gli esperti della materia, tutto doveva essere già comprensibile. Sa quale è il problema? Che ci siamo fidati della SARS».
«Anche in quel caso si trattava di un coronavirus che fece il “salto” dagli animali. Ma era talmente cattivo, talmente patogeno che non veniva trasmesso tramite agli asintomatici. Per intenderci: il tasso di mortalità era talmente alto che non c’erano proprio, gli asintomatici. Chi lo prendeva, moriva. Stessa cosa per l’Ebola: era talmente patogeno che non permetteva la propria autodiffusione. Ed è proprio per questo che si è, per così dire, suicidato: i microrganismi che vedono la loro esistenza crescere nei millenni sono quelli che instaurano con l’ospite un rapporto, per così dire, mutuale, amichevole. Questo coronavirus è in effetti proprio così, e in questo è simile all’HIV/AIDS».
«Per l’appunto. Viene trasmesso dalle persone che inconsapevolmente lo trasmettono. Altro punto di contatto è che per HIV non c’è un vaccino, oggi sappiamo che servono un insieme di misure di prevenzione. Il profilattico? Da solo non poteva funzionare, bisognava essere meno promiscui, bisognava scovare i sieropositivi. Sappiamo oggi che un sieropositivo se trattato con i farmaci anti-HIV non trasmette il virus. Come allora, anche oggi abbiamo tardato: come fai a combattere contro un virus che non sai dov’è? I Paesi che hanno risposto meglio alla pandemia sono quelli che hanno fatto test a dieci milioni di persone in una settimana. Oggi sappiamo invece che il contact tracing è impossibile, abbiamo 30-40 mila casi accertati al giorno, ognuno di noi vede 10 persone al giorno, fosse anche il benzinaio, il panettiere; fanno 400 mila persone al giorno e testare tutti è semplicemente impossibile».
«Io sono convinto che il vaccino arriverà e sarà un vaccino a immunità persistente, sarà un buon vaccino che indurrà una buona risposta immunitaria. Ma fino a quel momento, la prevenzione dovrà passare ancora, per qualche mese direi, dalle misure che ormai conosciamo: distanziamento, mascherine e lockdown. Sono le uniche cose che hanno dimostrato di poter funzionare con impatto importante. Se un lockdown non è pensabile per gli impatti che avrebbe, dobbiamo pensare a misure alternative e combinate. Il nostro obiettivo è quello di avere una copertura immunitaria così grande da ammazzare il suo modo di vivere, che è quello di trasmettersi, trovare per ogni ospite un altro ospite che gli consenta di sopravvivere. Quando SARS–CoV–2 inizierà a non poter avere più cibo, sarà in difficoltà, e morirà. Dobbiamo affamarlo e per affamarlo bisogna creare una barriera. Per creare questa barriera, serve del tempo».
«Basta vedere ad esempio quali siano i problemi, a tutt’oggi, per avere il vaccino antinfluenzale e antipneumococco. C’è un problema di disponibilità e di distribuzione. Quando arriverà il vaccino per il Covid-19 bisognerà, e questo è noto, decidere a quali fasce darlo per prime: ci saranno i sanitari e gli anziani, poi le forze dell’ordine, le categorie fragili, i malati cronici, i soggetti con insufficienza respiratoria. SARS–CoV–2 non deve trovare alcuna porta di ingresso a disposizione, dobbiamo creargli il deserto intorno. Anche per questo dovremo continuare a portare mascherine e a fare distanziamento nonostante venga messo in produzione il vaccino. Dovremo poi contare sugli anticorpi monoclonali, che come è noto sono molto costosi, delle sorte di bombe al napalm a uso singolo, a persone molto esposte. Un’altra cosa che ci insegna HIV è che non basta alzare dei muretti per fermare l’epidemia».
«Intendo, le piccole barriere fra gli stati che si vedono alzare nel dibattito giornalistico. Il virus deve essere attaccato con tutti gli strumenti possibili in tutte le parti del mondo contemporaneamente, è solo così che ce la faremo. Noi abbiamo messo in seria difficoltà HIV anche perché a partire dal 2000 abbiamo agito con decisione in Africa dove nei primi anni del millennio di AIDS si moriva a valanga. Abbiamo creato un fondo finanziario internazionale che si occupa di combattere HIV laddove non si hanno risorse a sufficienza, dove servono test, farmaci, cure. HIV ci ha insegnato che il problema delle disuguaglianze nell’accesso ai farmaci non è sottovalutabile e che nessun Paese si può salvare da solo».
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