Lo scienziato, ex presidente Aifa, non crede che il caldo aiuterà: «È solo una speranza, non abbiamo evidenze di questo». Poi spiega: «Servirà una rete di sorveglianza sul territorio basata sui medici di famiglia». E ribadisce: «Le mascherine servono, in alcuni Paesi hanno funzionato». L’unica speranza per Vella è «la scoperta di un vaccino che vada a stimolare la produzione di anticorpi neutralizzanti»
«Al momento il Covid-19 non si può paragonare con l’AIDS che ha infettato 80 milioni di persone uccidendone la metà, e questo trasmettendosi solo per via sessuale. Però questo Coronavirus fa paura per la velocità con cui riesce a contagiare e perché non abbiamo al momento farmaci». Stefano Vella, ricercatore, direttore del Centro Nazionale per la Salute Globale ed ex presidente dell’AIFA, ha una lunga esperienza nella lotta ai virus. Impossibile evitare il paragone con l’HIV, il virus che ha studiato a lungo contribuendo in modo sostanziale alla scoperta dei meccanismi patogenetici della malattia e alla messa a punto della terapia antiretrovirale.
Oggi però il nemico si chiama Sars-Cov-2 e Vella sta dando il suo contributo all’interno del Comitato Tecnico Scientifico, oltre che collaborando a vari trial internazionali, come “Discovery” e “Solidarity”, che studiano l’efficacia dei farmaci cosiddetti “riposizionati”, cioè usati già per altre patologie.
«I numeri stanno calando, ma l’epidemia non è ancora finita – sottolinea Vella a Sanità Informazione -. Ci sono sicuramente meno nuove infezioni. È come quando finisce l’influenza, ci sono sempre meno casi fino a che sparisce. Da qui a dire che stiamo del tutto tranquilli ce ne vuole. I dati non sono uniformi in tutta Italia. In alcune regioni più colpite, c’è ancora tanto virus in circolazione. Da parecchio tempo abbiamo capito che questo virus si trasmette anche dagli asintomatici, paucisintomatici o persone che lo stanno incubando: questo rende più incerto capire quando l’epidemia è realmente finita».
Secondo Vella può essere una buona idea programmare una ripartenza differenziata tra le regioni anche se questo può comportare dei problemi alla mobilità interregionale: «Si potrebbe ripartire con le regioni che hanno casi vicino allo zero. E potrebbe avere senso. Ma è anche vero che le regioni meno colpite potrebbero essere anche quelle dove la suscettibilità al virus è maggiore: questo dato al momento non è noto».
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La grande incognita su cui si stanno arrovellando gli scienziati di mezzo mondo è infatti capire quanto dura l’immunità che si acquisisce dopo aver superato il virus. «Questo ancora non lo sappiamo. Si pensa che un po’ duri: se il virus è stato sconfitto dall’organismo vuol dire che qualche anticorpo l’ha fatto. Adesso però non sappiamo quanto questi anticorpi siano persistenti. Per un periodo breve sicuramente siamo protetti. Ma questi Coronavirus possono tornare, basta pensare a quelli del raffreddore: non danno una immunità persistente».
Secondo lo scienziato romano, difficilmente le alte temperature estive potranno darci una mano nella lotta al Covid-19: «Questa idea che il virus sia sensibile al caldo è solo una speranza. In realtà non abbiamo nessuna certezza che sia proprio così. Io penso che il fatto che abbia colpito di più al nord sia un caso dovuto solo al fatto che è arrivato prima lì».
Ma come si potrà convivere con il virus? «Riaperture non vuol dire che ricominciamo tutto come prima – sottolinea subito Vella -. Sicuramente c’è necessità di riaprire alcune attività sennò andiamo in rovina, ma sarebbe utile mantenere il distanziamento sociale, anche senza rimanere rintanati in casa. Le attività all’aperto possono riprendere, soprattutto quelle dove c’è meno assembramento, come i cantieri. Sempre con i Dpi e sempre stando un po’ distanti. Però possono riprendere anche delle attività in ambienti interni: ad esempio in una falegnameria se le persone portano i dispositivi di protezione e i tavoli dove si lavora sono abbastanza distanziati si può riprendere. Poi bisogna sempre sanificare gli ambienti. Forse potranno riprendere anche alcune attività di ristorazione, soprattutto quelle che hanno gli spazi all’aperto in cui si può stare veramente distanti. Alcune cose possono tornare a una semi-normalità tenendo presente che però basta un nulla per riaccendere l’epidemia che, ricordiamolo, è scoppiata con una persona: il contagio è partito da una sola persona che a Wuhan s’è presa il virus».
Ed è a proposito delle mascherine che l’opinione di Stefano Vella è abbastanza netta, a differenza di quella di altri suoi colleghi: «Io sono favorevole alle mascherine. Qualcuno dice che manca la ‘prova provata’. Ma è come l’esperimento del paracadute: qualcuno ha mai fatto un trial randomizzato per vedere se è meglio buttarsi col paracadute o senza? Io penso che funzionino, in alcuni Paesi hanno funzionato perché permettono di non trasmettere le particelle di saliva».
Per ripartire serve dunque «una rete di sorveglianza sul territorio. L’ospedale rimarrà per i casi più gravi. Si deve puntare sulla medicina del territorio: al primo segno di un malanno, bisogna che ci sia una struttura di territorio protetta che va a vedere, ed eventualmente spegnere l’incendio. Servono cure domiciliari e isolamento. Poi serve il controllo da remoto, meglio non portare i contagiati in ospedale dove si può facilmente infettare qualcun altro. Nell’80% dei casi la malattia decorre senza gravi sintomi, soprattutto se il paziente è senza gravi fattori di rischio. E appunto serve poi una gradazione del rischio. Ci sono dei pazienti più fragili dove l’occhio deve essere ancora più vigile».
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Per le cure sono in tanti a sperare per il vaccino, ma i tempi rischiano di non essere così brevi come invece potrebbe essere per alcuni farmaci. «Bisogna puntare su tutti e due – sottolinea Vella -. Una cosa è l’immunità naturale, che uno sviluppa quando si infetta e che potrebbe non essere duratura. Ma l’unica immunità veramente duratura che potremmo immaginare è quella data da un vaccino che va a stimolare la produzione di anticorpi neutralizzanti, magari da ripetere tutti gli anni. Però non possiamo aspettare che si infetti tutta la popolazione per dire ‘abbiamo l’immunità di gregge’. Quella si fa solo con il vaccino, non si fa con l’infezione naturale. Anche nella rosolia, che è una malattia che dà immunità permanente, comunque c’è il vaccino, perché non si può aspettare che tutti i bambini della Terra si prendano la rosolia. L’unica speranza è un vaccino che dia una immunità neutralizzante. Tante malattie fanno sviluppare un gran numero di anticorpi ma non sono anticorpi protettivi per l’infezione. Non lavorano sulla porta di ingresso. Questo virus arriva, entra nelle vie respiratorie e deve sviluppare una immunità nelle vie respiratorie. Noi pensiamo che bisogna sviluppare un vaccino che sviluppi l’immunità alla porta d’ingresso».
Per quel che riguarda i farmaci, invece, più che sui farmaci ‘riposizionati’ l’attesa è per nuovi farmaci specifici: «L’industria ci sta lavorando, entro qualche mese li avremo. C’è tanta collaborazione fatta bene tra pubblico e privato, è una cosa molto importante. Questa epidemia ha fatto capire quanto sarà importante la collaborazione pubblico-privato. Grandi istituzioni di ricerca insieme all’industria. Entro qualche mese arriveranno, quelli specifici sono già in fase 1 o 2».
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