Intervista al fisico–epidemiologo computazionale della Northeastern University di Boston: «All’inizio avremo meno dosi di vaccino di quelle che vorremmo. Discuteremo di quale scala di priorità implementare»
«C’è un elemento fondamentale che va detto a tutti, che tutti i cittadini devono capire: se sbagliamo nei comportamenti l’epidemia ricomincia a crescere, e quando cresce ricominciano le ospedalizzazioni, poi le terapie intensive, poi i decessi». Il professor Alessandro Vespignani parla chiaramente dalla stanza della sua università a Boston, raggiunto per un’intervista da Sanità Informazione. Il fisico romano è Sternberg Family Distinguished University Professor di Fisica, Computer Science ed Health Science alla Northeastern University nel capoluogo del Massachusetts ed è apparso più volte con interventi su media di rilevanza nazionale e mondiale per i suoi studi applicativi della scienza delle reti all’epidemiologia: tramite metodi computazionali, informatici e di lavoro su imponenti basi di dati, insomma, si riesce a dare un supporto efficace ai modelli predittivi dei fenomeni epidemici in generale e in particolare dell’epidemia da nuovo coronavirus.
«La seconda cosa da dire, però – continua Vespignani commentando l’attuale situazione della pandemia di SARS–CoV–2 – è che siamo in una situazione molto diversa da quella di marzo. I paesi fanno molti più test e indagini epidemiologiche lavorando sull’isolamento dei focolai. La conoscenza dei dati ci ha consegnato una buona consapevolezza. Per questo io penso che non dobbiamo immaginarci il prossimo futuro come una nuova fase di lockdown generalizzato; piuttosto dobbiamo prepararci a molti alti e bassi, a contesti flessibili a cui i governi sono chiamati a rispondere prontamente. Se tornassimo a una quarantena generalizzata significherebbe che qualcuno, da qualche parte, ha commesso un errore: a febbraio una reazione simile era giustificabile, oggi non lo sarebbe».
«Il paese ha una traiettoria buona rispetto ad altri paesi che le sono intorno. Abbiamo imboccato un buon ciclo che sta consentendo agli ospedali di non finire sotto pressione. I casi però crescono e dobbiamo aspettarci che questo si intensifichi perché ricordiamo che abbiamo aperto le scuole solo una settimana fa. Dobbiamo prepararci a raddoppiare gli sforzi sia da parte delle istituzioni sia da parte dei cittadini che non devono essere paranoici ma continuare a fare tutto ciò che raccomandiamo ogni giorno: mascherine, distanziamento, igiene personale. L’obiettivo è quello di navigare nei prossimi mesi tenendo il virus in un angolo, e possiamo farlo».
«Mi fa un po’ sorridere sentire nel dibattito tanto accenno a questi termini mentre siamo ancora ai primi di ottobre. Davanti a noi ci sono novembre, dicembre, febbraio… ci sarà il freddo, avremo altri virus in giro, altre sindromi, dovremo essere bravi e calmi. Questo non è uno sprint, è una maratona, abbiamo fatto una prima enorme battaglia e adesso ci saranno altri scontri. I governi hanno tante leve su cui possono agire, i policymaker devono tenere d’occhio il contesto. Quali regole per i locali pubblici? Gli stadi? Lo smartworking? Il trasporto pubblico? Sono tutte linee da analizzare. C’è poi il grande nodo della scuola: in Francia si calcola che il 30% dei nuovi focolai siano di origine scolastica e questo è un tema un po’ ovunque, in Spagna, qui in USA con i 2/3 degli school districts che rimangono chiusi. Era difficile ma forse bisognava arrivare con maggiore preparazione su questo fronte».
«Clinici e microbiologi ci diranno che tipo di vaccino avremo, come sarà fatto e quali caratteristiche avrà. Noi ci occupiamo di dare qualche consiglio su come sarà distribuito. Il primo messaggio da diffondere a tutti è: teniamo ben presente che all’inizio avremo molte meno dosi di vaccino di quelle che vorremmo avere. Quale scala di priorità dovremo implementare? Su questo c’è una discussione. Di certo il primo tema è quello dei frontline workers, dei sanitari, i medici che ci aspettiamo abbiano senz’altro la priorità, insieme alle fasce d’età over 65 su cui questa malattia ha un impatto disproporzionato, soprattutto nei casi di comorbidità. Nella popolazione che ha età diversa, fra i 20 e i 50/60, ecco che li si potrà fare una distribuzione diversa, dovrà necessariamente esserci un processo mirato con degli indicatori utili a realizzare una buona distribuzione. Il nostro obiettivo deve essere quello di arrivare a una soglia di immunità soddisfacente che renda la vita difficile al virus. C’è poi un altro aspetto che è la gestione internazionale del vaccino: se le dosi si concentrano nell’occidente, in UE e negli Stati Uniti avremo un ulteriore problema. Questa è una pandemia, se in Europa stiamo bene e l’India macina 100mila casi al giorno non è buono per nessuno. Servirà una distribuzione equa globalmente per soffocare l’epidemia ovunque».
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