Uno studio internazionale a cui partecipa l’Università di Tor Vergata di Roma analizza il DNA dei soggetti resistenti al virus. Novelli: «L’interferone potrebbe avere un ruolo fondamentale. Se manca o viene eliminato in fretta si rischia di più. Obiettivo è mettere a punto un farmaco efficace contro il virus»
Mentre si accelera con le vaccinazioni per battere sul tempo il Covid e la maggior parte d’Italia si chiude in un nuovo lockdown, c’è chi studia gli immuni per natura, ovvero persone che nonostante il contatto diretto con il virus non si ammalano e potrebbero permettere di scoprire farmaci efficaci. Sono 250 i laboratori al mondo impegnati in questa ricerca. Tra di loro l’Università Tor Vergata di Roma con il professor Giuseppe Novelli che ai nostri microfoni spiega modalità e obiettivi dello studio.
«Quando c’è una pandemia i fattori in gioco sono l’ospite e l’ambiente, ossia il contesto in cui si sviluppa l’infezione. Noi ci siamo concentrati sulla seconda, che è fondamentale. I primi mesi dell’infezione ci siamo accorti che ci sono gli asintomatici, i moderati lievi, i casi gravi. Chi si ammala di Covid ha reazioni differenti, e anche gli organi colpiti non sono sempre gli stessi. Partendo da questo dato, siamo andati a scoprire le motivazioni di queste differenze. Nel gruppo dei gravissimi, ovvero di coloro che sono in terapia intensiva, abbiamo rilevato che il 10-12% dei malati ha un difetto nella produzione della prima linea di difesa contro i virus, ovvero nell’interferone, che non viene prodotto o eliminato subito dall’individuo. Questa è stata una delle più grandi scoperte dello scorso anno».
«Una volta che abbiamo individuato i soggetti che hanno questo difetto genetico, e sono coloro che si ammalano più gravemente di Covid, abbiamo capito che ci sono anche persone che non si infettano, nonostante siano consanguinei di malati, o conviventi o persone fortemente esposte al virus. Siamo andati in quella direzione per capire come mai».
«Innanzitutto, abbiamo selezionato molto bene i soggetti all’apparenza resistenti al virus. Questi hanno dato volontariamente il loro DNA nel rispetto della privacy. I dati, una volta raccolti, sono stati inviati ad un centro unico, in cui si procede con i calcoli biostatistici e bioinformatici per trovare le differenze».
«Abbiamo selezionato cento soggetti che hanno queste caratteristiche, allo stesso modo hanno fatto i colleghi americani, francesi, del sud est asiatico e del Canada. Ora stiamo leggendo il loro DNA. Dove troviamo differenze le confrontiamo, facciamo analisi statistiche, le correliamo ad altri parametri e poi valuteremo se esistono uno, due o tre caratteristiche genetiche che rendono queste persone resistenti al virus. Due le ipotesi al vaglio: potrebbero avere un recettore con una forma diversa o produrre meglio l’interferone».
«I test genetici di suscettibilità sono lo strumento che possiamo utilizzare per individuare chi non si ammala di Covid».
«Vogliamo scoprire quale differenza biochimica esiste in persone resistenti al virus, in modo da poter sviluppare nuovi farmaci. Un processo analogo è stato fatto per l’AIDS dove si è visto che negli immuni manca un particolare recettore. Quindi ora stiamo sviluppando un farmaco specifico in grado di bloccare il recettore quando è presente. È importante, perciò, in biologia studiare la diversità di risposta al virus per aprire nuove strade per le terapie».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato