Il vaccino anti-Covid non funziona allo stesso modo per tutti e questo dipende da determinate varianti genetiche coinvolte nei principali meccanismi di difesa del nostro sistema immunitario, che producono differenti quantità di anticorpi diretti contro l’antigene del coronavirus Sars-CoV-2. Queste, in estrema sintesi, le conclusioni di uno studio multicentrico italiano, pubblicato in open access su Communications Medicine
Il vaccino anti-Covid non funziona allo stesso modo per tutti e questo dipende da determinate varianti genetiche coinvolte nei principali meccanismi di difesa del nostro sistema immunitario, che producono differenti quantità di anticorpi diretti contro l’antigene del coronavirus Sars-CoV-2. Queste, in estrema sintesi, le conclusioni di uno studio condotto da un gruppo di medici e ricercatori della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico “Carlo Besta” (FINCB), dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”- IRCCS, dell’Azienda Ospedaliera Senese e della Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza, guidati dall’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio nazionale delle ricerche di Segrate (Cnr-Itb). Iniziato all’inizio della campagna vaccinale, i risultati del lavoro sono ora disponibili in open access su Communications Medicine.
Il gruppo ha condotto uno studio di associazione genetica a livello di tutto il genoma, valutando la correlazione tra milioni di varianti genetiche e i livelli anticorpali nel siero di soggetti vaccinati contro il Covid-19, a 30 giorni di distanza dalla vaccinazione. Infatti, sin dall’inizio della campagna vaccinale si era osservata una differenza sostanziale nelle quantità di anticorpi prodotti dai soggetti vaccinati. Genetisti e immunologi si sono subito chiesti a cosa fosse dovuta tale differenza. “Come per la maggior parte dei farmaci, così anche per i vaccini ogni individuo può rispondere in maniera più o meno efficace e questo è dovuto, almeno in parte, alla costituzione genetica individuale”, spiega Francesca Colombo, ricercatrice del Cnr-Itb, che ha guidato lo studio.
“Il nostro studio ha coinvolto 1.351 soggetti (operatori sanitari vaccinati nei primi mesi del 2021, nei tre centri ospedalieri coinvolti nello studio), ai quali è stato prelevato un campione di sangue per l’estrazione del Dna e di siero per la misurazione degli anticorpi anti-Sars-CoV-2 dopo un mese dalla somministrazione della seconda dose del vaccino Pfizer-Biontech”, riferisce Colombo. “Con le analisi statistiche effettuate abbiamo scoperto che una particolare regione del genoma, sul cromosoma 6, era significativamente associata ai livelli anticorpali”, aggiunge Martina Esposito, primo autore dello studio e assegnista di ricerca presso il Cnr-Itb. “In questa specifica regione genomica sono presenti dei geni che codificano per delle molecole presenti sulla superficie cellulare, coinvolte nei meccanismi di risposta immunitaria. Questi geni – continua – sono molto variabili ed esistono differenti combinazioni. Il nostro studio ha evidenziato che alcune combinazioni erano associate a livelli di anticorpi più alti, mentre altre a livelli più bassi, spiegando quindi dal punto di vista genetico le differenze nella risposta alla vaccinazione osservate tra individui diversi”.
“I modelli matematici usati e le analisi statistiche effettuate per arrivare a questi risultati sono molto complessi perché complessa è l’interazione tra i geni e dei geni stessi con il vaccino”, spiega Massimiliano Copetti, responsabile Biostatistica della Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza. “L’expertise maturata negli studi genetici in molti anni di ricerca condotta a Casa Sollievo della Sofferenza ci ha permesso di gestire tale complessità nei dati, contribuendo a giungere a questi importanti risultati”, aggiunge. “L’identificazione di specifici alleli HLA che conferiscono una predisposizione ad un’alta o bassa produzione di anticorpi dopo la somministrazione del vaccino anti-Covid – spiega Massimo Carella, biologo genetista e vice-direttore scientifico della Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza – ci può permettere ora di differenziare e personalizzare la campagna vaccinale, fornendo a ciascun individuo il vaccino più adatto, cioè quello che gli permetterà di produrre più anticorpi possibili. Questo approccio può essere esteso anche ad altri vaccini ideati contro altre malattie, nell’ottica di una vaccinazione di precisione supportata dalla vaccinogenomica”.
“I risultati del nostro studio – sottolinea Colombo – confermano in parte quelli già riportati da un gruppo inglese che ha condotto una ricerca simile alla nostra ma su soggetti ai quali è stato somministrato il vaccino prodotto da AstraZeneca, e questo è molto importante in studi genetici di questo tipo, in cui differenze genetiche tra diverse popolazioni possono rendere difficile l’identificazione delle varianti realmente responsabili del fenomeno biologico osservato”. Conclude Raffaella Brugnoni, ricercatore sanitario presso il Dipartimento di Ricerca e Sviluppo Clinico della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta: “La forza di questo progetto di ricerca sta nella fattiva collaborazione fra i vari partner e nel suo approccio multicentrico, al quale abbiamo contribuito attraverso la raccolta del materiale biologico e dei dati sierologici fondamentali per questo studio. Si tratta di un esempio di come le diverse comunità scientifiche possano collaborare per il progresso della ricerca e del benessere comune”.
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato